google-site-verification=fW9ic3r_naxgruDksv5S6Ug4tN6LSm6wUy51njmsY0M Legittimazione ad agire e titolarità del rapporto giuridico
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Legittimazione ad agire e titolarità del rapporto giuridico dedotto in giudizio: la pronuncia delle

Cass. Civ. Sez. Unite, Sent, 16/02/2016, n. 2951

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla portata della titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio e con la sentenza n. 2951 del 2016 ne hanno chiarito la differenza con la legittimazione ad agire dirimendo un forte contrasto giurisprudenziale.

L’intervento delle Sezioni Unite è stato sollecitato dalla terza sezione[1] a causa del contrasto presente nella giurisprudenza di legittimità in merito alla contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio. È la stessa Corte a sottolineare che la richiesta di intervento scaturisce dal fatto che “la giurisprudenza di legittimità non è unanime in materia di contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio”.

Nell’iter argomentativo ripercorso dalla Corte vengono analizzate le due contrapposte tesi: la prima, quella minoritaria[2], la quale sostiene che la titolarità costituisce una mera difesa, con l’ovvia conseguenza che incombe sulla parte, la cui titolarità è contestata, fornire la prova di possederla; la seconda, quella maggioritaria[3] che afferma che la contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio costituisce un’eccezione in senso tecnico, che deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, e, di conseguenza, spetta alla parte che prospetta tale eccezione l’onere di provare la propria affermazione.

Per il Supremo Collegio l’iter argomentativo seguito dall’orientamento maggioritario convince ma solo fino ad un certo punto. Anzitutto giova ricordare che le motivazioni delle sentenze che esprimono tale orientamento seguono, di massima, quattro passaggi. Partono dalla distinzione tra legittimazione ad agire ed effettiva titolarità del rapporto, puntualizzando che la carenza della legittimazione ad agire è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d’ufficio dal giudice, mentre, per contro, la questione della titolarità del rapporto (tanto attiva che passiva) attiene al merito della decisione e quindi alla fondatezza della domanda in concreto proposta. Da questa premessa fanno derivare l’affermazione che la relativa questione rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, con la conseguenza che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni in senso stretto e che, al contrario della “legitimatio ad causam”, non è rilevabile d’ufficio essendo collegata al potere dispositivo e all’onere deduttivo e probatorio della parte interessata[4].

Secondo la Corte, sebbene debba essere condivisa la ricostruzione dell’orientamento maggioritario che distingue tra legittimazione al processo e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione e deve essere anche condivisa l’affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva, attiva ma anche passiva, attiene al merito della decisione, cioè alla fondatezza della domanda; il passaggio che non convince le Sezioni Unite è, invece, quello per cui, attenendo al merito della decisione, la questione rientri nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Infatti, secondo la Corte “il fatto che la questione attenga al merito significa che rientra nel problema della fondatezza della domanda, della verifica della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio, ma non significa che la relativa prova gravi sul convenuto e che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un’eccezione, tanto meno in senso stretto.”

Nel dirimere il contrasto giurisprudenziale e fare chiarezza sui due istituti, la Corte parte dall’inquadramento della legittimazione ad agire. Quest’ultima si iscrive “nella cornice del diritto all’azione” e cioè nel diritto di agire in giudizio. Il nostro ordinamento, come noto, riconosce, e pone a suo fondamento, il diritto all’azione che viene affermato sia nel codice civile che nella Costituzione. L’art 2097 c.c. stabilisce che: “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda della parte” e, parimenti, l’art 24 Cost. dichiara: “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. La legittimazione ad agire serve, quindi, ad individuare la titolarità del diritto ad agire in giudizio e, di conseguenza, ragionando ex art. 81 c.p.c., a norma del quale “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”, tale titolarità spetta a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne titolare.

Secondo una tradizionale e condivisibile definizione, infatti, la “parte”, è il soggetto che in proprio nome domanda o il soggetto contro il quale la domanda, sempre in proprio nome, è proposta. Oggetto di analisi, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione ad agire, è, quindi, la domanda nella quale l’attore deve affermare di essere il titolare del diritto dedotto in giudizio. Nel caso in cui l’atto introduttivo del giudizio non indichi, quanto meno implicitamente, l’attore come titolare del diritto di cui si chiede l’affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l’azione sarà inammissibile[5].

Da quest’analisi fornita dalla Corte emerge come una cosa sia la legittimazione ad agire, cosa diversa sia, invece, la titolarità del diritto sostanziale oggetto del processo: la legittimazione ad agire mancherà tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il diritto vantato in giudizio non appartiene all’attore; la titolarità del diritto sostanziale attiene, invece, al merito della causa cioè alla fondatezza della domanda. I due regimi giuridici sono, conseguentemente, diversi.

Orbene secondo le Sezioni Unite, la tesi dell’orientamento maggioritario ha il suo punto debole proprio nel passaggio in cui, dopo aver correttamente affermato che la questione della titolarità del diritto fatto valere in giudizio attiene al merito, e quindi al problema della fondatezza della domanda, sostiene che – proprio poiché attinente al merito – la materia rientri nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, traendone la conseguenza che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni in senso stretto.

La titolarità del diritto fatto valere in giudizio, che attiene al merito della causa, infatti non riguarda “la prospettazione ma la fondatezza della domanda: si tratta di stabilire se colui che vanta un diritto in giudizio ne sia effettivamente il titolare”, è, quindi, un elemento costitutivo della domanda.

Chi fa valere un diritto in giudizio non può limitarsi ad allegare che un diritto sussiste ma deve allegare che quel diritto gli appartiene, deve cioè dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona. Di conseguenza, sul piano dell’onere probatorio, in base alla ripartizione fissata dall’art. 2697 c.c., la titolarità del diritto è un fatto, appartenente alla categoria dei fatti-diritto, che costituisce fondamento della domanda.

La Corte, fissando alcune prime conclusioni, chiarisce che la parte che promuove un giudizio deve, quindi, prospettare di esser parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione ad agire) e deve, poi, provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte.

La titolarità del diritto, come sostiene la Corte, può essere provata in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità. Tuttavia, il convenuto, qualora non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, potrebbe anche limitarsi a negarla. Questa presa di posizione è una mera difesa, le “difese” sono, in generale, “le posizioni assunte dal convenuto per contrapporsi alla domanda. Possono consistere nell’esposizione di ragioni giuridiche o in prese di posizione rispetto ai fatti prospettati dall’attore. Queste ultime potranno, a loro volta, consistere in prese di posizione che si limitano a negare l’esistenza di fatti costitutivi del diritto (“mere difese”), oppure nella contrapposizione di altri fatti che privano di efficacia i fatti costitutivi o modificano o estinguono il diritto”. Il codice civile, all’art 2697, secondo comma, definisce questa seconda operazione difensiva introducendo il termine “eccezione” e pone l’onere della prova nei fatti impeditivi, modificativi o estintivi oggetto delle eccezioni a carico del convenuto.

All’interno della categoria generale delle eccezioni, si delinea poi la sottocategoria delle “eccezioni in senso stretto”, che presenta un regime giuridico peculiare. Rilevano a tal fine la norma per cui “il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti” (art. 112 c.p.c. seconda parte), alla quale si ricollega la previsione per cui il convenuto, nella comparsa di risposta “a pena di decadenza deve proporre … le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio” (art. 167, secondo comma c.p.c.). Sul piano pratico la distinzione che più conta non è tanto quella tra mere difese ed eccezioni, quanto quella che isola le eccezioni in senso stretto, soggette a decadenza, se non vengono tempestivamente proposte, e non rilevabili d’ufficio.

La Corte approda alla conclusione per cui “la titolarità costituendo un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, può essere negata dal convenuto con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex. art. 167 c.p.c. comma 2”.

È vero che il medesimo art. 167, comma 1, chiede al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore fondamento della domanda, ma tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza.

Pertanto, la questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine e può essere sollevata d’ufficio dal giudice. Essa può anche essere oggetto di motivo di appello, perché l’art 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di “nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”.

La questione è poi complicata, secondo la Corte, dall’intervenuta generalizzazione del principio di non contestazione di cui al primo comma dell’art 115 c.p.c., ricondotto al silenzio tenuto dalla parte costituita in relazione ad un fatto allegato dalla controparte.

Le Sezioni Unite, infatti, affrontano la questione in relazione al motivo sollevato dai ricorrenti: “la prova della titolarità può esser raggiunta anche mediante la mancata contestazione da parte del convenuto a norma dell’art. 115 c.p.c. e, che il convenuto rimasto contumace in primo grado non può godere di diritti più ampi e deve accettare il processo nello stato in cui si trova con tutte le preclusioni e decadenze già verificatesi”, e, partendo dall’assunto per il quale il convenuto deve tempestivamente prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (art. 167 c.p.c., comma 1) e, “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m., nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita” (art. 115 c.p.c., comma 1), sottolineano come il silenzio sia cosa diversa dal riconoscimento (espresso, implicito o indiretto).

La non contestazione, infatti, pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare in queste materie, il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto[6]. Diversa, infine, è la considerazione del silenzio quando la parte sia rimasta contumace. Questo silenzio, per il codice, ha ancora meno valore. L’art 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati “dalla parte costituita”. Il principio di non contestazione quindi non viene esteso alla parte che non si è costituita: la contumacia esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti; in particolare la contumacia del convenuto non esclude che l’attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Costituendosi tardivamente il contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate, ma potrà assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte.

I principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite

La Corte pertanto, avallando il ragionamento della Corte d’appello enuncia i seguenti principi di diritto:

  • la legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne il titolare. La sua carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice;

  • cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio che attiene al merito della causa;

  • la titolarità della posizione soggettiva è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, che l’attore ha l’onere di allegare e di provare;

  • può essere provata in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità;

  • la difesa con la quale il convenuto si limiti a dedurre, ed eventualmente argomentare (senza contrapporre e chiedere di provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi), che l’attore non è titolare del diritto azionato, è una mera difesa. Non è un’eccezione, con la quale si contrappone un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, né quindi un’eccezione in senso stretto, a pena di decadenza, solo in sede di costituzione in giudizio e non rilevabile d’ufficio.

  • essa pertanto può essere proposta in ogni fase del giudizio (in cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato). A sua volta il giudice può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d’ufficio;

  • la contumacia del convenuto non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori e non vale in particolare ad escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Però il convenuto, costituendosi tardivamente accetta il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate. Gli sarà preclusa la possibilità di basare la negazione della titolarità del diritto sull’allegazione e prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi non rilevabili dagli atti.

[1] Con l’ordinanza 13 febbraio 2015, n. 2977,

[2] Cfr. Cass. 10 luglio 2014, n. 15759; Cass. 5 novembre 1997, n. 10843; Cass. 19 luglio 2011, n. 15832.

[3] Cfr. Cass. 27 giugno 2011, n. 14177; Cass. 10 maggio, n. 11284; Cass. 15 settembre 2008, n. 23670; Cass. 26 settembre 2006, n. 20819; Cass. 7 dicembre 2000, n. 15537.

[4] Ad es. Cass. Sez. II, 10 maggio 2010, n. 11284;”; Cass. Sez. III, 26 settembre 2006, n. 20819; Cass. Sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15537. Si esprimono con formule analoghe anche ulteriori decisioni, quali Cass. Sez. I, 23 novembre 2005, n. 24594; Cass. Sez. III. 30 maggio 2008, n. 14468; Cass. Sez. II, 23 maggio 2012, n. 8175; Cass. Sez. III, 14 febbraio 2012, n. 2091.

[5] Naturalmente ben potrà accadere che, all’esito del processo, si accerti che la parte non era titolare del diritto che aveva prospettato come suo (o che la controparte non era titolare del relativo obbligo), ma ciò attiene al merito della causa, e non esclude la legittimazione a promuovere un processo. L’attore perderà la causa, con le relative conseguenze, ma aveva diritto a intentarla.

[6] Cfr. Cass. Sez. Un. 3 giugno 2015, n. 11377

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