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Decreto ingiuntivo non opposto: la Corte UE amplia il sindacato del giudice dell’esecuzione

La Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 17 maggio 2022, cause riunite C 639/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a. ha espresso il principio per cui «l’ articolo 6, paragrafo 1, e l’ articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo».

La decisione Col provvedimento in rassegna la Corte di giustizia dell’Unione europea ha offerto una lettura differente rispetto a quella invalsa nella giurisprudenza nazionale circa i poteri di sindacato del giudicato, costituito dal decreto ingiuntivo non opposto e divenuto, quindi, definitivo, da parte del giudice della successiva esecuzione. Infatti, se, per il diritto interno, il giudice dell’esecuzione può rilevare solo eventi fattuali e giuridici venuti in essere successivamente alla formazione del titolo, per la Corte europea, quest’ultimo ha, invece, il potere- dovere di scrutinare il testo del contratto fonte del credito azionato in monitorio onde verificare se esso contenga clausole abusive, la cui nullità è in grado di incidere sull’an o sul quantum della posta creditoria azionata nonostante che essa sia oggetto del provvedimento monitorio avente ormai natura di cosa giudicata. Il caso e le questioni di diritto La pronuncia in esame è stata emessa contemporaneamente ad altre tre sentenze con cui la Corte di giustizia dell’Unione europea, riunita in Grande Sezione, si è occupata dell’interpretazione della direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. In particolare, la Corte di giustizia ha inteso chiarire i termini della incidenza del principio dell’autorità della cosa giudicata sulla tematica della tutela del consumatore, giungendo alla conclusione per cui tale principio non può essere di ostacolo a che venga assicurata al consumatore una tutela giurisdizionale effettiva (e non solo potenziale) nei confronti di clausole abusive apposte in suo danno. E ciò in vista dell’esigenza di riequilibrare la posizione di inferiorità in cui si trova il consumatore nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale, sia il livello di informazione: infatti, la traiettoria finalistica portante della direttiva 93/13 è quella per cui le clausole abusive non vincolano i consumatori. In tal senso, come precisato nella sentenza del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15 (v. CS 144/16), richiamata al § 52 dell’arresto in esame, questa direttiva detta una disposizione imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale del contratto un equilibrio reale. Il destro del chiarimento è stato offerto dal Tribunale di Milano che ha posto le seguenti questioni pregiudiziali. Questione pregiudiziale nella causa C 639/19, SPV Project 1503 e a.«Se ed a quali condizioni gli articoli 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e l’articolo 47 della [Carta] ostino ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato e che preclude allo stesso giudice, in caso di manifestazione di volontà del consumatore di volersi avvalere della abusività della clausola contenuta nel contratto in forza del quale è stato formato il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito»Questioni pregiudiziali nella causa C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a.«a) Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli articoli 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’articolo 47 della [Carta] osti ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, allorquando il consumatore, avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato».« b) Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli articoli 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’articolo 47 della [Carta] osti ad un ordinamento come quello nazionale che, a fronte di un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di una clausola contrattuale, preclude al giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere su un’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore, di rilevare una simile vessatorietà e se una simile preclusione possa ritenersi esistente anche ove, in relazione al diritto vivente vigente al momento della formazione del giudicato, la valutazione della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non qualificabilità del fideiussore come consumatore».Va, in primo luogo, rilevato che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha sancito l’irrilevanza della consapevolezza da parte del debitore del proprio status di consumatore poiché «il giudice nazionale è tenuto a valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nell’ambito di applicazione» della direttiva 93/13. Passando al vivo del confronto fra l’approccio della Corte di giustizia e l’elaborazione teoretica e giurisprudenziale nazionale in punto di efficacia preclusiva del decreto ingiuntivo non può prescindersi dall’assioma da cui muove il ragionamento della Corte di Lussemburgo costituito dall’esigenza che il sistema procedurale interno assicuri il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (cfr. § 55 della sentenza in esame), di modo che sia sempre garantito che vi sia un giudice nazionale che effettui un controllo in relazione all’abusività di qualsiasi clausola contrattuale. In altri termini, il legislatore interno gode sul punto di ampia discrezionalità, sempre che sia raggiunto il divisato obiettivo della piena tutela del consumatore cui deve essere garantito un controllo giudiziale effettivo e non solo potenziale sull’ordito contrattuale (cfr. § 72 delle conclusioni dell’Avvocato generale Tanchev). E, in tale ottica, il principio dell’autorità della cosa giudicata, pur di assoluta importanza per l’ordinamento giuridico dell’Unione, onde garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici nonché la buona amministrazione della giustizia (cfr. § 57 della sentenza in rassegna), non gode di una portata illimitata, come, peraltro, ricavabile dal precedente arresto Corte di giustizia dell’Unione Europea, prima sezione, sentenza 26 gennaio 2017, in causa C-421/14, Banco Primus SA in cui si legge: «in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia ancora stata esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusività di tali clausole». Dunque, perché venga in essere il fenomeno della irretrattabilità dell’accertamento contenuto nel titolo giudiziale proprio del giudicato formale ex art. 324 c.p.c., con i conseguenti noti effetti sui profili sostanziali delle posizioni giuridiche accertate in conformità col disposto di cui all’art. 2909 c.c., occorre che il giudice abbia effettivamente verificato la natura delle clausole contenute nel contratto intercorso tra consumatore e professionista, fonte del credito azionato giudizialmente, non essendo sufficiente che egli sia astrattamente posto in grado di compiere tale verifica. Decisiva si rivela, dunque, sotto tale profilo la motivazione del provvedimento giudiziale, la quale deve dare traccia dello svolgimento dello scrutinio richiesto, recte imposto, in sede eurounitaria al giudice nazionale a tutela del debitore-consumatore. La carenza motivazionale del provvedimento emesso in sede di cognizione legittima un recupero di tutela da parte del predetto debitore-consumatore in sede esecutiva, potendo, anzi dovendo, il giudice dell’esecuzione svolgere la predetta verifica per il caso in cui non risulti dall’iter argomentativo esposto nel titolo giudiziario azionato il suo espletamento da parte del giudice della cognizione. Valga in tal senso riportare il contenuto dei § 65 e 66 della sentenza in commento: «una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali. Ne consegue che, in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione». In ciò si coglie la dicotomia fra la visione del sistema europeo, in cui conta ciò che il giudice nazionale ha verificato, di modo che solo entro tali ristretti limiti posti a tutela del consumatore l’accertamento diviene incontrovertibile, e l’approccio dell’ordinamento italiano in cui, invece, il giudicato copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile dinanzi al giudice della cognizione. E, secondo il diritto interno, di quest’ultimo profilo il giudice dell’esecuzione, successivamente adito al fine di ottenere l’esecuzione forzata del comando giudiziale, deve disinteressarsi atteso che il giudicato sostanziale si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto, i quali rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico giuridico della pronuncia, spiegando, quindi, la sua autorità non solo nell'ambito della controversia e delle ragioni fatte valere dalle parti (giudicato esplicito) ma estendendosi necessariamente agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione, formandone il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico giuridico della pronuncia (giudicato implicito). Con la precisazione per cui il giudicato implicito non si forma sull'intero rapporto dedotto in giudizio ma solo su quelle parti del rapporto stesso fra le quali sussista un'indissolubile interdipendenza, nel senso che, come detto, l'una costituisca necessaria premessa o presupposto logico dell'altra (Cass. 13 novembre 1997, n. 11228: occorre che l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cada su questioni, che si presentano come la necessaria premessa o il presupposto logico è giuridico della decisione; Cass. 23 gennaio 1996, n. 501). Ne segue che, come icasticamente statuito da Cass. 14 ottobre 2011, n. 21293, mentre con l'opposizione all'esecuzione forzata fondata su un titolo esecutivo giurisdizionale possono farsi valere soltanto i fatti posteriori alla formazione del provvedimento costituente titolo esecutivo, non essendo ammissibile un controllo a ritroso della legittimità e della fondatezza del provvedimento stesso fuori dell'impugnazione tipica e del procedimento che ad essa consegue, la medesima esigenza, invece, non si riscontra allorché l'esecuzione forzata sia basata su un titolo di natura contrattuale: in tal caso, pertanto, il debitore può contrastare la pretesa esecutiva del creditore con la stessa pienezza dei mezzi di difesa consentita nei confronti di una domanda di condanna o di accertamento del debito, e il giudice dell'opposizione può rilevare d'ufficio non solo l'inesistenza, ma anche la nullità del titolo esecutivo nel suo complesso o in singole sue parti, non vigendo in materia il principio processuale della conversione dei vizi della sentenza in mezzi di impugnazione. In coerenza con tali principi, Cass. 24 settembre 2018, n. 22465 ha ritenuto preclusa dal giudicato, formatosi a seguito dell'estinzione della causa di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da una banca in relazione al saldo passivo di un conto corrente, la successiva domanda, proposta dal correntista, tesa ad ottenere la ripetizione delle somme indebitamente trattenute dall'istituto di credito in forza di clausole negoziali invalide. La Corte ha così ribadito che il principio, per cui l'autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono sia pure implicitamente il presupposto logico-giuridico, trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, in mancanza di opposizione o quando quest'ultimo giudizio sia stato dichiarato estinto, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda in altro giudizio (v. anche Cass. 28 novembre 2017, n. 28318). Come chiarito in epigrafe, invece, per la Corte di giustizia dell’Unione Europea, in tema di tutela del consumatore, l'autorità del giudicato spiega i suoi effetti esclusivamente sulla pronuncia esplicita della decisione: «[a] tale riguardo, mi sembra che il sindacato del carattere potenzialmente abusivo delle clausole contrattuali ai sensi della direttiva 93/13 debba essere oggetto di una valutazione esplicita e sufficientemente motivata da parte del giudice nazionale. Come illustrato dalle circostanze di cui alle presenti cause, la normativa nazionale in oggetto implica che la questione relativa all’abusività delle clausole contrattuali si considera decisa nel merito anche quando essa non è stata affatto trattata dal giudice nazionale. A mio avviso, come indicato dalla Commissione, se il sindacato dell’abusività delle clausole contrattuali non è motivato nella decisione contenente il decreto ingiuntivo, il consumatore non sarà in grado di comprendere o analizzare i motivi di tale decisione o, se del caso, di proporre opposizione all’esecuzione in modo effettivo. Non sarà neppure possibile per un giudice nazionale eventualmente investito di un’impugnazione pronunciarsi. A tale riguardo, la Corte ha precisato che, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito»: così il § 80 delle conclusioni dell’Avvocato generale Tanchev. Pertanto, come notato anche dai primi commentatori (si v. Elena D’Alessandro in Giur. It., 2022, 2, 485), la motivazione del decreto ingiuntivo gioca un ruolo decisivo in quanto deve dimostrare che il giudice del monitorio si sia fatto effettivamente carico di verificare l’eventuale abusività delle clausole del contratto fonte del credito azionato: solo in tal caso, il debitore-consumatore non avrà più agio di recuperare la dovuta tutela in sede esecutiva, né, tantomeno, si radica il potere-dovere del giudice della fase esecutiva di svolgere il cennato scrutinio. Il quadro così mutato va tuttavia coniugato con due rilievi di ordine generale. Il primo, non considerato dalla Corte di giustizia, è costituito dall’orientamento giurisprudenziale (tra le varie, Cass. 16 giugno 1987, n. 5310) secondo il quale il giudice che emette il decreto ingiuntivo accogliendo le ragioni del ricorrente ne fa propri i motivi, per cui il riferimento a questi - portati a conoscenza dell'ingiunto mediante la notificazione sia del ricorso che del decreto, prevista dal secondo comma dell'art. 643 c.p.c. - è sufficiente ad integrare per relationem la motivazione del provvedimento, necessaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 641, primo comma, e 135, secondo comma, dello stesso codice. Orientamento, peraltro, non distonico rispetto a quanto più in generale precisato dalle Sezioni Unite nella sentenza 16 gennaio 2015, n. 642, e ripreso ex multis da Cass. 27 aprile 2018, n. 10174, a mente della quale la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo. Si aggiunga che il § 3.3.3. di Cass. sez. Unite, 21 febbraio 2022, n. 5633, in punto di eterointegrazione del titolo esecutivo giudiziale, specifica che la sua interpretazione «ai sensi dell'art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, essendo consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato». Il criterio ermeneutico del titolo esecutivo giudiziale si allarga, dunque, anche al di là dei limiti testuali del testo, ricomprendendo, appunto, anche gli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui si è formato. Il che interpella, in prima battuta, il difensore che redige l’istanza monitoria a chiarire esattamente l’ordito letterale del contratto posto base del credito azionato, anche enucleando, semmai anche mediante esplicito richiamo della documentazione depositata, la non ravvisabilità in esso di alcuna clausola abusiva. Infatti, in tal modo, combinando il ricorso in monitorio con il pedissequo decreto, che nell’insieme formano un nesso motivazionale inscindibile, sarà possibile evincere che il giudicante ha effettivamente svolto lo scrutinio dovuto e che è giunto al convincimento per cui nessuna lesione nei propri diritti possa aver subito il consumatore per effetto del detto testo contrattuale. Il secondo, invero fatto valere dal Governo italiano davanti alla Corte di giustizia, discende dalla pronuncia della Corte costituzionale 3 novembre 2005, n. 410 che attribuisce al giudice del monitorio poteri di rilievo d’ufficio più ampi di cui è dotato il giudice della cognizione nei procedimenti ordinari. Nell’ambito di questi rientra sicuramente quello ribadito al § 53 della sentenza in discorso che ribadisce come: «dalla giurisprudenza costante della Corte risulta che il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, a ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine». Per altro verso, resta tutto da indagare l’effetto della pronuncia in rassegna sul versante del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie in relazione alla previsione di cui all’art. 4, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, secondo cui «[l]’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno». Infatti, il recupero di tutela in sede esecutiva potrebbe espungere la fase cognitiva monitoria dall’ambito dei provvedimenti giudiziari possibilmente causativi del danno ingiusto fonte della richiesta risarcitoria; e ciò a prescindere dalla ravvisabilità in essa della violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea nei termini precisati dai commi 3 e 3-bis dell’art. 2 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117. Eppure, non si può non registrare il progressivo scardinamento del principio dell’autorità della cosa giudicata di cui è fra l’altro espressione la legge delega 26 novembre 2021, n. 206, che, all’art. 1, comma 10, lett. a), autorizza il Governo a prevedere un nuovo motivo di revocazione straordinaria secondo cui: «ferma restando l'esigenza di evitare duplicità di ristori, sia esperibile il rimedio della revocazione previsto dall'articolo 395 c.p.c., nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario in tutto o in parte alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (di seguito: la Convenzione) ovvero a uno dei suoi protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente». In questa sede si ribadisce nuovamente che in tal guisa si apre a una sempre più ampia cedevolezza - se non sfarinamento - del giudicato, che, come osservato (Salvato), può preludere a una sorta di «eterno processo», a una «flessibilizzazione del giudicato». Una complessiva tendenza non vista, come pure segnalato da acuti giuristi (Montedoro), con disfavore da un certo fenomeno economico incentrato sul tipo contrattuale della scommessa piuttosto che su quello della vendita e che, pertanto, di per sé non necessita della certezza del diritto, quanto invece di continuamente postergare le scadenze, perseguendo un circolo ermeneutico infinito. Il tutto pur a fronte del valore – da preservare – costituzionale del giudicato posto che l'essenza dell'idea stessa di giurisdizione risiede nella possibilità che la tutela e l'accertamento dei diritti debbano tradursi in provvedimenti che siano dotati della necessaria stabilità. Non può non sussistere, infatti, una stretta correlazione tra il diritto di azione e di difesa e l'effettività e irretrattabilità del risultato giudiziario raggiunto attraverso il giudicato quale connotazione ulteriore del diritto costituzionalmente riconosciuto.

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