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Solo prove Rigorose fondano la responsabilità del socio di SRL


Il Tribunale di Milano - sezione specializzata in materia d’impresa - con sentenza del 7 marzo 2017 si è recentemente espresso in tema di responsabilità del socio di S.r.l. ex art. 2476, comma 7, c.c. chiarendo il perimetro di applicazione della norma. L’aspetto innovativo della pronuncia si rinviene, in particolare, nelle argomentazioni sviluppate dal collegio giudicante in punto di onere della prova: i requisiti richiesti dalla disposizione (e, in particolare, quello soggettivo dell’intenzionalità dei soci che hanno deciso o autorizzato il compimento di atti gestori) devono infatti essere valutati sulla base di un’analisi scrupolosa e secondo canoni estremamente rigorosi tali da far ritenere senz’altro provata l’effettiva ingerenza del socio nella condotta foriera di responsabilità.


Nel caso di specie, il curatore fallimentare di una S.r.l. aveva promosso azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. contro ex amministratori e soci legati tra loro da vincoli di parentela. In particolare, il Fallimento contestava ai convenuti - tra l’altro - la commissione di illecite condotte distrattive (di denaro, merci e servizi) ai danni della fallita ed in favore dei convenuti medesimi nonché di un’altra società in cui i convenuti erano altresì soci e amministratori.

Parte attrice chiedeva al Tribunale di accertare che le condotte distrattive coinvolgessero non solo l’amministratore della fallita, ma anche i due soci della stessa (entrambi figli dell’amministratore) per avere questi ultimi intenzionalmente deciso e autorizzato condotte causative di danni ex art. 2476, comma 7, c.c.

Il Tribunale di Milano, con la sentenza in esame, ha accolto in parte le istanze attoree distinguendo nettamente le posizioni dei due soci sulla base delle risultanze probatorie emerse in corso di causa: in relazione alla posizione di uno dei due, i giudici hanno ritenuto adeguatamente dimostrato il suo concreto intervento nelle scelte gestorie a supporto dell’azione distrattiva commessa dagli amministratori; per quanto concerne l’altro socio, il Tribunale è invece giunto a conclusioni di segno opposto, ritenendo che costui non potesse essere ritenuto responsabile per il mero fatto – posto a fondamento dell’istruttoria - di aver rivestito la qualifica di socio in entrambe le società (la fallita e la destinataria delle somme distratte) e avere rapporti di parentela stretta con i rispettivi amministratori.

La pronuncia in commento si fonda su un’interpretazione restrittiva del comma 7 dell’art. 2476 c.c. Come noto, tale disposizione stabilisce che i soci che abbiano “intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi” siano solidalmente responsabili con gli amministratori.

La ratio sottesa alla norma viene ricondotta alla necessità di individuare un contrappeso agli estesi poteri gestori che la nuova disciplina della S.r.l. accorda ai soci. A differenza della S.p.a., in cui il rapporto tra assemblea e amministratori è tendenzialmente rigido e sottratto alla disponibilità dei soci, nella S.r.l. è concessa a questi ultimi un’ampia autonomia statutaria che permette di modulare più liberamente l’attribuzione dei poteri gestori e di trasferire parte di questi ai soci stessi.

In considerazione, quindi, dell’ampiezza dell’autonomia statutaria che rende oggi più evanescente il confine tra le decisioni assunte dai soci e quelle assunte dagli amministratori, il legislatore ha predisposto un meccanismo di bilanciamento che consente l’estensione della responsabilità ai soci che abbiano avallato l’azione illegittima degli amministratori.

Il regime di responsabilità del socio è di tipo solidale con gli amministratori, tanto che essa è configurabile solo nel caso in cui sussista altresì una responsabilità, a monte, degli amministratori (in questo senso cfr. Tribunale di Napoli 09.02.2016; in dottrina Cagnasso, La società a responsabilità limitata, in trattato Cottino, 2007, 1891).

I presupposti per l’applicazione di tale responsabilità sono diversi. In primis, secondo la tesi prevalente, la norma trova applicazione esclusivamente nei confronti dei soci non amministratori: in caso di attività pregiudizievoli poste in essere da soci amministratori, infatti, la disposizione di riferimento è costituita dal comma 1 dell’art. 2476 c.c. che sancisce la responsabilità per danni derivanti dall’inosservanza degli specifici doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo (cfr. Tribunale di Salerno 09.03.2010. In dottrina, si veda Schlesinger, in Il Codice Civile-Commentario, 2011, Giuffrè, 1123).

Ulteriori presupposti per la configurazione della fattispecie in esame sono costituiti dalla (i) individuazione dei poteri gestori in capo ai soci e dalla (ii) concretizzazione del requisito dell’intenzionalità della decisione o dell’autorizzazione.

Con riferimento al primo profilo, dottrina e giurisprudenza sono divise tra l’orientamento che limita la responsabilità del socio di S.r.l. alle ipotesi in cui i poteri siano esercitati in forza di norme di legge o di clausole dell’atto costitutivo (cfr. Irace, La responsabilità per atti di eterogestione, in La nuova disciplina della società a responsabilità limitata, a cura di Santoro, Milano, Giuffrè, 2003, 189) e l’orientamento più estensivo che, invece, ritiene sufficiente qualsivoglia manifestazione di volontà espressa dai soci anche in forma non istituzionale (quindi anche in assenza di una disposizione statutaria o di legge) purché idonea a dare impulso all’attività gestoria (cfr. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Le Società, 2003, 331. In giurisprudenza si vedano, ex multis, Tribunale di Milano 9.7.2009; Tribunale di Roma 01.06.2016).

Per quanto concerne il secondo aspetto - intenzionalità della condotta di autorizzazione o decisione degli atti gestori - anche in questo caso, sono state prospettate diverse soluzioni ermeneutiche. Da un lato vi sono coloro che sostengono che l’intenzionalità sia frutto di una imprecisione linguistica del legislatore del tutto pleonastica, in quanto le decisioni o le autorizzazioni presuppongono sempre un quid intenzionale (cfr. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Le Società, 2003, 333).

Secondo altro filone interpretativo tale presupposto deve essere riferito non alla condotta bensì alla volontà di produrre un danno al patrimonio della società, dei soci, o dei terzi (si veda Irace, La responsabilità per atti di eterogestione, in La nuova disciplina della società a responsabilità limitata, a cura di V. Santoro, Milano, 2003, 190; Tribunale di Salerno 09.03.2010). Oppure ancora vi è chi ritiene che l’intenzionalità si riferisca alla consapevolezza dell’antigiuridicità dell’atto gestorio (cfr. Ferrara jr., Gli imprenditori e le società, Milano, 2007 p. 945. In giurisprudenza, Tribunale di Torino 20.4.2012).

All’interno del contesto sopra delineato si inserisce la pronuncia del Tribunale di Milano la quale sembra allinearsi all’orientamento più restrittivo fornendo, al contempo, precisazioni in punto di assolvimento dell’onere della prova.

Per il vero i giudici milanesi sembrano focalizzarsi non tanto sui diversi approcci ermeneutici sviluppati intorno al dettato normativo, ma piuttosto su un tema diverso: la sussistenza di una prova certa dei presupposti richiesti ex lege o, quantomeno, la presenza di indizi “caratterizzati da un grado di univocità, gravità e concludenza tale da far ritenere senz’altro provata un’ingerenza rilevante del socio”.

L’onus probandi, inevitabilmente gravante su parte attrice, deve pertanto essere ottemperato considerando che il giudice valuterà la fondatezza della domanda sulla base di un’analisi scrupolosa e secondo canoni rigidi che consentano di ritenere dimostrata - al di là di ogni dubbio - l’effettiva ingerenza del socio foriera di responsabilità.

Nel caso di specie la circostanza che il socio della fallita fosse anche socio della società beneficiaria della condotta dissipatoria nonché prossimo congiunto (figlio e fratello) degli amministratori delle due società, non è stata considerata indizio sufficiente a provare la sussistenza dell’intenzionale autorizzazione o decisione.

Più nel dettaglio, il collegio ha chiarito che, in relazione ai profili di responsabilità dei soci di società medio piccole di tipo familiare (ovverosia, casi in cui soggetti accumunati da gradi di parentela rivestono il ruolo di soci e amministratori), al fine di ritenere accertato l’addebito non basta la sussistenza di un grado di parentela stretta tra gli amministratori e soci “sebbene tale situazione sia fortemente indicativa della possibilità di intervenire” nelle scelte gestorie.

Una prova meramente indiziaria potrà pertanto acquisire rilevanza solo attraverso il riscontro di altre circostanze oggettive e concordanti che ne suffraghino la credibilità tanto da influenzare il libero convincimento del giudice.

Sulla base di tali principi il Tribunale di Milano ha dunque escluso la responsabilità di uno dei due soci. L’autorità, ha invece ritenuto responsabile l’altro socio della fallita ritenendo sufficiente la circostanza che lo stesso fosse, oltre che parente dell’amministratore, anche amministratore unico della società beneficiaria della condotta distrattiva alla quale aveva partecipato emettendo fatture fittizie e irregolari per giustificare l’apporto di denaro illecitamente ricevuto. Rappresenterebbe proprio questa, per il collegio, la discriminante tra le due posizioni di socio: colui che ha rivestito la carica di amministratore all’interno della società destinataria delle azioni dissipatorie, ha ricoperto un ruolo attivo con ciò dimostrando – unitamente agli altri elementi indiziari – la sua “intenzionale decisione o autorizzazione”.

Occorre in ultimo rilevare che il percorso argomentativo sviluppato dal Tribunale di Milano in punto di prova si pone in contrasto con quanto stabilito da altra giurisprudenza di merito. In particolare ci si riferisce alla recente pronuncia del Tribunale di Torino del 20 aprile 2012 con la quale - in un caso pressoché analogo a quello di specie - il collegio ha invece ritenuto inverosimile che due soci tra loro legati da vincolo di parentela (fratelli) non conoscessero e non partecipassero attivamente alle dinamiche gestorie della società amministrata dal padre poiché “il rapporto di parentela consentiva loro di essere ben consapevoli delle dinamiche interne della società”.


Alla luce dell’orientamento delineato dal Tribunale di Milano, sembra oggi più difficile dimostrare la sussistenza di una responsabilità dei soci cogestori ex art. 2476, 7 comma c.c. L’approccio più rigoroso fatto proprio dai giudici meneghini, a nostro avviso, merita di essere accolto con favore in quanto garantisce al socio gestore maggiore tutela e, al contempo, limita il rischio di manovre puramente strumentali da parte di alcuni soci nei confronti di altri assicurando così maggiore stabilità (ed attrattività) della S.r.l.

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