google-site-verification=fW9ic3r_naxgruDksv5S6Ug4tN6LSm6wUy51njmsY0M Il socio di SRL risponde dei debiti una volta cancellata la società?
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Il socio di SRL risponde dei debiti una volta cancellata la società?

L’avvenuta cancellazione della società, a causa della cessazione della medesima in corso di causa, costituisce motivo fondato per il rigetto della domanda attorea tesa alla richiesta di un risarcimento danni per vizi della cosa installata, nell’ambito di un contratto di appalto, se il socio unico della cessata società non ha ricevuto alcuna distribuzione dell’attivo, non potendo quindi, quale socio di società di capitali, rispondere oltre il capitale conferito. Così si è recentemente espressa la seconda sezione civile della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 32729/2023.

Il caso prende le mosse da un ricorso per Cassazione presentato da una società che si era vista respingere in sede d’appello la propria domanda di risarcimento del danno nei confronti della società appaltatrice, quale costruttrice e alienante dell’immobile ad uso artigianale di cui la stessa ricorrente era utilizzatrice in forza di contratto di leasing, danni causati da asseriti gravi difetti costruttivi relativi ai serramenti forniti.

Nel giudizio di primo grado, infatti, il Tribunale aveva dichiarato la responsabilità della ditta appaltatrice la quale, in ogni caso, chiamata la ditta fornitrice ed installatrice dei serramenti contestati per essere dalla stessa garantita e manlevata, era stata nelle more cancellata dal Registro delle Imprese; una volta riassunto il procedimento nei confronti del socio unico della srl cancellata, il medesimo eccepiva di non aver ricevuto nulla in sede di liquidazione dalla cessata società e per tale ragione che nessun obbligo a titolo personale avesse verso l’attrice, mantenendo comunque ferma la domanda di manleva già avanzata dalla società in bonis.

Come detto, il Tribunale condannava quindi il socio unico a rifondere i danni all’attrice, tenendolo comunque indenne dal pagamento in quanto anche la domanda di garanzia veniva accolta dal Giudice di prime cure.

Nel dettaglio, il Tribunale aveva ritenuto che la cancellazione della società appaltatrice dal registro delle imprese, con la conseguente responsabilità limitata dei soci – nel caso specifico si trattava di un socio unico – non incidesse sulla loro legittimazione processuale ma al più sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che in ogni caso non era a priori escluso dalla circostanza che i soci non avessero partecipato alla ripartizione finale.

Avverso la sentenza del primo Giudice interponevano appelli separati, poi riuniti dalla Corte d’appello per economia di giudizio e connessione oggettiva, sia il convenuto socio della società cessata, sia il terzo chiamato, condannato in primo grado alla manleva nei confronti del convenuto.

Sostanzialmente i motivi di appello potevano essere identificati in a) la carenza di prova sull’esistenza dei vizi dei serramenti e b) l’insussistenza dei presupposti per la condanna dell’ex socio unico della società appaltatrice estinta al pagamento del debito sociale, non avendo questi percepito alcunché all’esito della redazione del bilancio finale della liquidazione; il convenuto in primo grado contestava inoltre la disposta compensazione delle spese in relazione al rapporto di garanzia.

La società appellata, nel costituirsi nel giudizio di gravame, contestava invece che non vi fosse alcuna prova che il socio unico non avesse percepito alcunché in sede di liquidazione della società, sostenendo altresì che tale prova (negativa, n.d.r.) incombesse sull’appellante; aggiungeva altresì che non tutte le poste attive che facevano capo originariamente alla società cessata erano state oggetto di liquidazione, rimanendo astrattamente esistente il relativo diritto di credito nei confronti della terza chiamata, la cui esistenza aveva avuto conferma proprio dalla sentenza appellata, di guisa che il diritto di manleva non compreso nel bilancio finale di liquidazione si era trasferito al socio unico il quale, nei limiti della domanda di manleva, avrebbe risposto delle obbligazioni della cessata società di capitali.

La Corte d’appello, pertanto, decidendo sui due distinti gravami, poi riuniti, riformava parzialmente la sentenza di primo grado con riferimento al socio unico e integralmente in relazione al terzo chiamato, rigettando quindi la domanda di risarcimento dei danni per i vizi dell’opera appaltata, e rigettando altresì la domanda con la quale l’appellante socio unico aveva contestato la disposta compensazione delle spese di giudizio di prime cure nel rapporto con il terzo chiamato.

Sosteneva la Corte d’appello adita che a) la responsabilità del socio, all’esito della cancellazione della società, non poteva estendersi all’intero debito, se di entità superiore rispetto a quanto riscosso dal socio, posto che, se così fosse stato, si sarebbe configurata una responsabilità diretta e illimitata dei soci per i debiti sociali, in palese contrasto col principio della responsabilità limitata dei soci delle società di capitali; b) nel caso di specie, il socio unico avrebbe risposto dei debiti della società cancellata nei limiti di quanto ricevuto a seguito della liquidazione, essendo onere del creditore (e non il contrario come dallo stesso sostenuto in primo grado e poi ribadito nel giudizio di appello) dimostrare che il socio avesse ottenuto una parte dell’attivo sociale; c) non poteva sostenersi che il socio unico avesse ricevuto, a seguito della cessazione della società, il diritto di manleva, quale diritto di credito non compreso nel bilancio finale di liquidazione, in modo che egli, nei limiti di valore di tale diritto, avrebbe dovuto rispondere delle obbligazioni della cessata società di capitali; d) il diritto di manleva costituiva un posterius rispetto alla domanda di risarcimento dell’originaria attrice, e dunque non possedeva un’autonoma consistenza patrimoniale; e) solo nella misura in cui il socio fosse succeduto nel debito della società avrebbe potuto ipotizzarsi che egli fosse subentrato anche nel diritto di manleva; f) doveva essere confermata la compensazione delle spese processuali tra convenuto e terzo chiamato del giudizio di primo grado; e infine g) sussistevano gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese poiché l’attrice aveva legittimamente agito nei confronti della società appaltatrice, in ordine ai vizi esistenti nei serramenti e la mancata condanna, a titolo risarcitorio, era dipesa unicamente dalla sopravvenuta cessazione della società debitrice.

Avverso tale articolata pronuncia del Giudice d’appello proponeva ricorso, con un unico motivo, la società attrice in primo grado, mentre debitore e terzo chiamato proponevano entrambi controricorso mentre proponeva autonomo ricorso incidentale il solo terzo chiamato.

Contestava la ricorrente la falsa applicazione dell’ art. 2495, terzo comma, c.c. per avere la Corte di merito attribuito efficacia estintiva alla cancellazione della società rispetto al debito sociale, anziché contemplare un fenomeno successorio di tale debito.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato detto motivo di ricorso confermando il ragionamento, ritenuto corretto, della Corte d’Appello la quale ha escluso che il socio unico della società cessata, all’esito della cancellazione volontaria, potesse rispondere del debito sociale, in mancanza di qualsivoglia prova che, invece, questi avesse riscosso denaro o altri beni a seguito della liquidazione sociale, onere probatorio che sarebbe ricaduto in positivo sul creditore sociale e non già in negativo sul socio.

Del resto, il consolidato orientamento sul punto, ritiene che, in caso di credito non soddisfatto verso la società di capitali cancellata dal registro delle imprese, il socio può essere obbligato a rispondere verso il creditore sociale ove quest’ultimo provi l’avvenuta distribuzione dell’attivo e la conseguente riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione, incombendo per contro sul socio convenuto in giudizio l’onere della prova di aver effettivamente utilizzato le somme ricevute in base al bilancio finale di liquidazione per il pagamento dei debiti della società.

D’altronde, la manleva rappresentava un posterius rispetto alla condanna risarcitoria, sicché la mancata successione del socio nel debito sociale avrebbe escluso anche il subentro dello stesso socio nel diritto di manleva.

La garanzia di cui all’ art. 106 c.p.c. opera in conseguenza dell’adempimento, da parte del garantito, dell’obbligazione principale con l’effetto che essa non è idonea a incidere sulla dinamica attuativa dell’obbligazione medesima, la quale potrà restare inadempiuta, a dispetto della garanzia di cui goda il debitore nei confronti del terzo; la copertura della garanzia avrebbe quindi presupposto la successione del socio unico nel debito sociale, circostanza a monte esclusa dal difetto di prova sulla riscossione di somme di denaro o dalla assegnazione di beni sociali in favore del socio, con la conseguenza che, venuto meno il debito principale – nel quale non è succeduto il socio – è altresì esclusa l’operatività della manleva.

Quanto detto per quanto attiene quindi alla corretta riforma della sentenza in sede di gravame circa la posizione dell’originario convenuto ha avuto conseguenze, anch’esse oggetto di censura in sede di controricorso, sulla ripartizione delle spese di lite ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c., attesa la parziale compensazione operata dal Giudice dell’appello, tra tutte le parti in causa, ancorché con motivazioni diverse.

Anche su questo punto specifico la Suprema Corte ha ritenuto corretto il ragionamento operato dal Giudice del gravame nel ritenere individuata la parte soccombente sia nei confronti del socio unico sia nei confronti dell’impresa individuale terza chiamata in manleva, nell’originaria parte attrice che aveva chiesto il risarcimento dei danni, domanda respinta nel giudizio di gravame.

In particolare, le spese del giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata. Nel caso di specie, poi, per “gravi ed eccezionali ragioni”, esplicitamente indicate secondo il disposto del secondo comma dell’ art. 92 c.p.c., è stata disposta la compensazione nei limiti di due terzi di entrambi i gradi di giudizio.

In sostanza, il giudice del gravame ha dato conto che il diverso esito del giudizio di appello è dipeso dalla sopravvenuta cancellazione della società, non prevedibile al momento in cui la domanda era stata azionata in prime cure, secondo una valutazione complessiva dell’esito della lite.

Da ultimo, sulla ripartizione delle spese di lite tra il convenuto ed il terzo chiamato, anche in questo caso la Suprema Corte ha confermato il ragionamento logico giuridico operato dal giudice dell’appello che aveva correttamente individuato quale unica parte soccombente, nei confronti di entrambi gli appellanti, la sola appellata, in applicazione del principio di causalità.

Riferimenti normativi: Art. 2495, terzo comma, c.c. Art. 106 c.p.c.Art. 91 c.p.c.Art. 92 c.p.c.

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