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Per le SS.UU. la “grande naturalizzazione brasiliana” non ha effetto


Con le sentenze gemelle del 24 agosto 2022 n. 25317 e n. 25318, le Sezioni Unite della Cassazione si pronunciano sugli effetti del decreto della cosiddetta “grande naturalizzazione” (risalente al 1889), che aveva attribuito agli avi e ai loro discendenti stabilizzatisi in Brasile, con provvedimento massivo, la cittadinanza brasiliana: circostanza questa alla quale, secondo il Ministero degli Interni, era conseguita una rinuncia tacita a quella italiana. La questione, dunque, pone il quesito fondamentale se lo status di cittadino possa essere oggetto di rinuncia attraverso la mera permanenza in un altro paese ed in mancanza di una manifestazione di volontà o, al contrario, se l’intenzione abdicativa debba essere manifestata espressamente, tenuto conto della specifica natura del diritto. LA SOLUZIONE

L’istituto della perdita della cittadinanza italiana, disciplinato dal codice civile del 1865 e dalla legge n. 555 del 1912, ove inteso in rapporto al fenomeno di cd. grande naturalizzazione degli stranieri presenti in Brasile alla fine dell’Ottocento, implica un’esegesi restrittiva delle norme afferenti, nell’alveo dei sopravvenuti principi costituzionali, essendo quello di cittadinanza annoverabile tra i diritti fondamentali; in questa prospettiva l’art. 11, n. 2, cod. civ. 1865, nello stabilire che la cittadinanza italiana è persa da colui che abbia “ottenuto la cittadinanza in paese estero”, sottintende, per gli effetti sulla linea di trasmissione iure sanguinis ai discendenti, che si accerti il compimento, da parte della persona all’epoca emigrata, di un atto spontaneo e volontario finalizzato all’acquisto della cittadinanza straniera - per esempio integrato da una domanda di iscrizione nelle liste elettorali secondo la legge del luogo -, senza che l’aver stabilito all’estero la residenza, o anche l’aver stabilizzato all’estero la propria condizione di vita, possa considerarsi bastevole, unitamente alla mancata reazione al provvedimento generalizzato di naturalizzazione, a integrare la fattispecie estintiva dello status per accettazione tacita degli effetti di quel provvedimento.PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:Cass. civ. sez. Unite n. 5250/1979L'acquisto della cittadinanza straniera, pure se accompagnato dal trasferimento all’estero della residenza, non implica necessariamente la perdita della cittadinanza italiana, la quale richieda, ai sensi dell’art. 8 della legge 13 giugno 1912, n. 555, che detto acquisto sia avvenuto ‘spontaneamente’, ovvero se verificatosi ‘senza concorso di volontà’ dell’interessato che sia stato seguito da una dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza italiana. Pertanto il sopravvenuto acquisto della cittadinanza straniera non può essere di per sé invocato, anche al fine della giurisdizione, come causa della perdita della cittadinanza italiana, occorrendo l’allegazione e dimostrazione delle indicate circostanze.Cass. sez. III, 21 novembre 1981, n. 6220L'acquisto della cittadinanza straniera, pur se accompagnato dal trasferimento all'estero della residenza, non implica necessariamente la perdita della cittadinanza italiana, la quale richiede, ai sensi dell'art. 8 della legge 13 giugno 1912 n. 555, che detto acquisto sia avvenuto "spontaneamente", ovvero, se verificatosi "senza concorso di volontà" dell'interessato, che sia stato seguito da una dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza italiana. Pertanto, il sopravvenuto acquisto della cittadinanza straniera non può essere di per se invocato, come causa della perdita della cittadinanza italiana, occorrendo l'allegazione e dimostrazione delle indicate circostanze.

Ai sensi dell'art. 11 della l. n. 91 del 1992, l'acquisto della cittadinanza straniera, pur se accompagnato dal trasferimento all'estero della residenza, non implica necessariamente la perdita della cittadinanza italiana, a meno che l'interessato non vi rinunci con un atto consapevole e volontario. Infatti, come si evince dall' art. 4 Cost., dall'art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo del 10 dicembre 1948 e dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ogni persona ha un diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile allo stato di cittadino, che è azionabile in via giudiziaria in ogni tempo e può perdersi solo per rinuncia. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, dichiarando la cittadinanza italiana della ricorrente - e di suo figlio - in quanto, sebbene trasferitasi in Australia acquistando la cittadinanza di quel Paese, mai aveva esplicitamente rinunciato a quella italiana). Cass. sez. I, 5 novembre 2015, n. 22608

La perdita della cittadinanza italiana presuppone una rinuncia spontanea e volontaria da parte del cittadino, non potendo dirsi propriamente tale quella dettata dalla necessità, legislativamente imposta, di acquisire la cittadinanza del coniuge straniero e dovendo la volontà abdicativa essere oggetto di approfondito accertamento istruttorio, anche officioso, da parte del giudice. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, assumendo la carenza di un rigoroso accertamento istruttorio sull'effettiva spontaneità della rinuncia della madre del ricorrente alla cittadinanza italiana a seguito del matrimonio con un cittadino egiziano, anche in ragione dell'allora vigente art. 10, comma 3, della l. n. 555 del 1912, implicante la perdita della cittadinanza della «donna cittadina che si marita ad uno straniero»). Cass. sez. I, 3 agosto 2017, n. 19428

Alla luce della natura permanente ed imprescrittibile del diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana, i figli minori di una donna italiana, che abbia sposato uno straniero e stabilito la propria residenza all'estero, perdono la cittadinanza italiana, ai sensi dell'art. 12, comma 3, della l. n. 555 del 1912, applicabile “ratione temporis”, esclusivamente nel caso in cui la madre, a seguito del matrimonio, abbia, ai sensi dell' art. 11 della l. n. 91 del 1992, rinunciato spontaneamente e volontariamente alla cittadinanza italiana, senza che tale rinunzia - alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983 - possa costituire la mera conseguenza dell'acquisto della cittadinanza del coniuge straniero (art. 10 della legge n. 555 del 1912) ovvero di una "volontà" abdicativa non liberamente determinata (art. 8 della legge n. 555 del 1912).Le vicende oggetto dei ricorsi traggono origine dalle domande di accertamento dello status di cittadini italiani, formulate da alcuni brasiliani. In entrambe le vicende processuali, i ricorrenti, discendenti in linea retta di cittadini italiani emigrati in Brasile alla fine del diciannovesimo secolo, fondavano la loro pretesa di riconoscimento della cittadinanza italiana sul c.d. criterio dello ius sanguinis. Essendo stata provata documentalmente la discendenza ininterrotta da cittadini italiani, emigrati in Brasile alla fine del diciannovesimo secolo, il Tribunale ordinario di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e, conseguentemente, ordinava agli organi competenti di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile. In particolare, veniva rigettata l’eccezione ministeriale della cd. “grande naturalizzazione”, secondo cui con decreto n. 58 del 1889 - del Governo provvisorio brasiliano - sarebbe stato introdotto un meccanismo di rinuncia automatica di cittadinanza per tutti i cittadini stranieri (compresi gli italiani) residenti in Brasile al 15 novembre 1889. Il Tribunale di Roma ha osservato – in ragione della natura di diritto assoluto – che la cittadinanza italiana può perdersi solo in forza di un atto volontario ed esplicito e non anche dal mancato esercizio della rinuncia alla cittadinanza brasiliana, precisando che essa non era stata documentata dalla parte onerata. La Corte d’Appello di Roma, investita dell’impugnazione dal Ministero degli Interni, ha interamente riformato le ordinanze impugnate, considerando interrotta la linea di trasmissione dello status civitatis, in ragione della perdita della cittadinanza italiana degli avi (nati in Italia e poi emigrati in Brasile), nonché della perdita della cittadinanza italiana dei loro figli (nati in Brasile), ai sensi dell’art. 11 c.c. 1865. Assumeva, al riguardo, che il loro inserimento nel “consesso sociale” brasiliano ed il godimento di tutti diritti civili e politici riconosciuti dal Brasile avrebbe determinato una “accettazione tacita” della cittadinanza brasiliana ed una correlativa e “contestuale rinuncia tacita” a quella originaria italiana; e che la perdita della cittadinanza italiana degli avi degli appellati si sarebbe, comunque, verificata in base all’art. 11, n. 3, c.c. 1865, in quanto costoro avevano svolto attività lavorativa nel paese di migrazione, accettando, senza l’autorizzazione del governo italiano, un impiego da un governo estero, per esso intendendosi l’organo di governo che regolamenta e consente al cittadino straniero di vivere e lavorare nello stato ove si è trasferito. In sintesi, i motivi ostativi al riconoscimento della cittadinanza italiana degli appellati sarebbero derivati dall’interruzione nella linea di trasmissione di tale status, in conseguenza di eventi riguardanti sia gli avi (nati in Italia e poi emigrati in Brasile), che i loro figli (nati in Brasile). L’impugnazione delle due sentenze dinanzi alla Corte di Cassazione si fonda su plurimi motivi volti ad evidenziare, in sintesi, che la perdita della cittadinanza italiana non poteva essere conseguenza di una condotta implicita o per atto di imperio di altra nazione; e che la perdita della cittadinanza in conseguenza della accettazione di un impiego dal “governo estero” doveva intendersi, ex art. 11 co 3 c.c. 1865, in senso restrittivo, potendosi riconoscere solo nelle ipotesi di assunzione di impiego da cui consegua una appartenenza organica ed una fedeltà alla nazione di riferimento; che, soprattutto, le fattispecie abdicative ed estintive della cittadinanza non potevano desumersi da presunzioni semplici, tenuto conto che nei casi specifici, era stata provata documentalmente l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis per discendenza dagli avi. Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite per la particolare rilevanza della sottostante questione di diritto. La questione essenziale posta dai ricorrenti è interamente conchiusa nel primo motivo. La questione è che in applicazione lineare dell’art. 11 cod. civ. abr. non si sarebbe potuta ravvisare, per le conseguenze sullo status civitatis rivendicato, una fattispecie di perdita della cittadinanza tale da interrompere la linea di trasmissione iure sanguinis risalente all’avo, giacché la perdita avrebbe potuto risalire solo a una rinuncia espressa. La Sezioni Unite della Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, cassano con rinvio la sentenza impugnata. In particolare, il Supremo Collegio muove dal rilievo che la cittadinanza è una qualità, attribuita dalla legge, che indica l’appartenenza di un soggetto a uno Stato. A essa corrisponde un patrimonio variabile di diritti e doveri di matrice pubblica e costituzionale (uno status, come si suol dire). A questo riguardo l’ordinamento giuridico italiano mantiene per tradizione un approccio conservatore, senza alterazioni sostanziali rispetto al prevalente criterio di acquisizione della cittadinanza iure sanguinis, praticamente immutato fin dal cod. civ. del 1865 secondo un impianto ereditato prima dalla l. n. 555 del 1912 e poi dalla attuale l. n. 91 del 1992. L’acquisto fondamentale è a titolo originario per nascita. Fino al 1992 ciò equivaleva a dire che è cittadino italiano chi sia figlio di padre cittadino, oppure, quando il padre è ignoto (o apolide), chi sia figlio di madre cittadina. Una tale formula ha nella sostanza caratterizzato le leggi nazionali nell’arco del divenire storico che qui rileva: artt. 4 e 7 del cod. civ. del 1865, art. 1 della L. n. 555 del 1912. Il quadro è mutato con la l. n. 91 del 1992, frutto di una sopravvenuta maturazione costituzionale, ma semplicemente nel senso che è cittadino per nascita – oggi – chi sia figlio di padre o di madre cittadini, ovvero chi sia nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi (o se non segua la loro cittadinanza in base alla legge dello Stato di appartenenza). È un fatto assolutamente ovvio –osservano le Sezioni Unite - che l’istituto della perdita della cittadinanza italiana può dipendere solo dalla legislazione nazionale, secondo le previsioni in questa pro tempore rinvenibili, non mai invece da decisioni attuate in un ambito ordinamentale straniero. Proprio da ciò è originato il riconoscimento dei fenomeni di doppia cittadinanza, d’altronde armonici con lo sviluppo e l’evoluzione del diritto internazionale. La risultante di un tale schema è molto semplice. La cittadinanza per fatto di nascita si acquista a titolo originario. Lo status di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente ed è imprescrittibile. Esso è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano. Donde la prova è nella linea di trasmissione. Resta salva solo l'estinzione per effetto di rinuncia. Ne segue che, ove la cittadinanza sia rivendicata da un discendente, null’altro – a legislazione invariata - spetta a lui di dimostrare salvo che questo: di essere appunto discendente di un cittadino italiano; mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’evento interruttivo della linea di trasmissione. Nella concreta fattispecie la corte d’appello di Roma ha escluso che i ricorrenti potessero vantare la cittadinanza per acquisizione di sangue, perché l’avevano perduta gli avi. La perdita di cittadinanza degli avi è stata affermata sul duplice concorrente presupposto, legato alla disciplina della cittadinanza del cod. civ. abr. Il cod. civ. abr., all’art. 11, disciplinava la fattispecie estintiva nel seguente modo: “La cittadinanza si perde: 1. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l'uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza; 2. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero; 3. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.La corte d’appello ha ritenuto integrate le ipotesi dei nn. 2 e 3 del citato art. 11. La risposta al quesito devoluto alle Sezioni unite non può prescindere, in verità, da un’analisi di contesto: vale a dire dalla considerazione del contesto storico-normativo nel quale ebbe a collocarsi la grande naturalizzazione brasiliana di fine Ottocento. L’analisi elide la premessa maggiore del ragionamento della corte d’appello di Roma, incentrata sugli “effetti” della grande naturalizzazione. XVIII. – La grande naturalizzazione del 1889 non esaurì in propri effetti in modo istantaneo. Corrispose a un fenomeno di assimilazione progressiva. Peraltro, all’epoca era condiviso il sospetto degli ordinamenti statuali verso il fenomeno delle naturalizzazioni di massa in quanto tali. Ciò discendeva dalla constatazione per cui tali fenomeni erano integrati da processi di stampo autoritario, spesso arbitrari e oltre tutto accompagnati dalla resistenza ad accordare al naturalizzato, almeno nell’immediatezza, i diritti politici. Al quesito su quali potessero essere tali condotte risponde la ricostruzione delle norme interne allo Stato del Brasile di fine secolo, e in particolare la costituzione del 1891 e i decreti ulteriori a essa conseguiti. Da tale ricostruzione emerge che, diversamente da quanto presupposto dalla corte capitolina, al decreto di grande naturalizzazione non fu da attribuire altra natura che quella di norma espressiva di una volontà di tipo programmatico. Non anche invece quella di fonte diretta di investitura della cittadinanza brasiliana agli stranieri ivi menzionati. La situazione per gli stranieri presenti in Brasile alla fine del 1889 era quindi del tutto peculiare: il richiamato decreto n. 58-A, seppure dicendo di considerare “cittadini brasiliani” i residenti in Brasile al 15-11-1889, conferiva loro la semplice possibilità di acquisire la cittadinanza attraverso il compimento di un’attività ulteriore, volontaria e positivamente integrata dalla richiesta di iscrizione alle liste elettorali o di rilascio della tessera elettorale; sicché in difetto i diritti primari, connessi allo stato di cittadino, sarebbero stati loro preclusi. E deve osservarsi che in ogni caso preclusi lo sarebbero stati, quei diritti, nei confronti degli analfabeti, giacché in questa prospettiva la costituzione brasiliana del 1891 finì col vietare, per l’appunto, la possibilità di un’iscrizione a domanda nelle liste elettorali per le elezioni federali o per quelle regionali (art. 70). Il nesso con la volontarietà di un atto conseguente al decreto di grande naturalizzazione venne reso ancor più esplicito da un ulteriore provvedimento normativo del governo brasiliano, e segnatamente dal decreto n. 6948 del 1908. Con questo fu precisato che la concessione della cittadinanza, possibile in base al decreto del 1889, sarebbe avvenuta sulla base di una ancora duplice condizione: (i) la mancata dichiarazione, entro il 24-8-1891, dell’interesse “a mantenere la nazionalità di origine”; (ii) la richiesta di divenire cittadino brasiliano (e cioè l’apposita domanda) da rivolgere “da solo o per procura, al Presidente della Repubblica, tramite il Ministro della Giustizia e delle Imprese dell’Interno” (art. 4).Ciò in correlazione con la stessa costituzione brasiliana che (art. 43) esplicitamente avvertì della necessità di emanare, dopo il 1891, leggi finalizzate alla vera naturalizzazione. Donde in tal guisa, in disparte la domanda, si prospettò necessario, fino al 31-12-1907, “per gli stranieri tacitamente naturalizzati “, di considerare validi, “come titoli dichiarati di cittadino brasiliano”, quelli costituiti dal “titolo ed elettore federale” ovvero dai “decreti e ordinanze di nomina per uffici pubblici federali o statali” (art. 11 del decreto citato). XXIII. - La conclusione indotta dai dati normativi è univoca. Essa è che per lo straniero raggiunto dalla grande naturalizzazione lo status di cittadino brasiliano poteva discendere, fino al 1907, essenzialmente dall’iscrizione alle liste elettorali ovvero dall’assunzione di un impiego pubblico, ovvero ancora da una specifica distinta domanda. E che quindi il richiamato decreto di naturalizzazione di massa, lungi dal conferirla in via diretta e automatica, semplicemente prevedeva che gli stranieri acquisissero (o meglio, potessero acquisire) la cittadinanza brasiliana attraverso il compimento di un’attività ulteriore, questa sì indicativa espressione di volontà finalizzata al risultato della cittadinanza, per lo meno consistente (ma per i soli soggetti non analfabeti) nella richiesta di iscrizione alle liste elettorali o nel rilascio della tessera elettorale. Rapportata al dato che rileva l’impugnata sentenza è errata in diritto. A torto la corte d’appello di Roma, discorrendo di tacita accettazione degli effetti del decreto di grande naturalizzazione in virtù della stabilizzazione di vita, di relazioni sociali e di affetti dell’emigrato nel territorio brasiliano unita alla mancata manifestazione di una condotta reattiva del tipo di quella prevista nel decreto medesimo, ha ritenuto integrato il requisito stabilito dall’art. 11, n. 2, cod. civ. abr. La circostanza dell’accettazione – in qualche modo – degli effetti di un provvedimento di naturalizzazione di massa non avrebbe potuto (e non può) desumersi da un contegno solo passivo. Nessun rilievo poteva essere attribuito al mero atteggiamento inerziale, eventualmente manutenuto nel tempo, rispetto alle facoltà concesse dall’ordinamento agli stranieri naturalizzati, per l’elementare ragione che solo una condotta efficiente e attiva, e dunque positiva, sarebbe valsa come manifestazione implicita di volontà tale da corrispondere alla nozione insita nell’espressione “ottenere la cittadinanza” di cui alla fattispecie contemplata dal codice abrogato. Il diritto di cittadinanza appartiene al novero dei diritti fondamentali, e non si addice ai diritti fondamentali l’estensione automatica di presunzioni che, come quelle dettate da un comportamento asseritamente concludente di ordine puramente negativo, possono assumere – a certe condizioni di legge - normale rilievo nel distinto settore dei diritti patrimoniali. Il vero è che dagli artt. 3, 4, 16 e seg. e 22 cost., dall'art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 e dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 si evince che ogni persona ha un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile allo stato di cittadino, che congloba distinti ed egualmente fondamentali diritti e che può perdersi solo per rinuncia. Forte di tali basi, rispetto alle singole fattispecie implicanti la perdita della cittadinanza, l’orientamento dominante si è fin qui sempre collocato in posizione opposta a quella ritenuta dalla corte romana, e cioè nel senso che la perdita della cittadinanza può derivare solo da un atto consapevole e volontario, espresso in modo lineare al fine di incidere direttamente su un rapporto che, come quello sottostante, corrisponde a un diritto di primaria rilevanza costituzionale ed è contraddistinto da effetti perduranti nel tempo. Codesta linea di tendenza ha caratterizzato in modo lineare la giurisprudenza di questa Corte finanche nel divenire delle discipline di legge. Insomma, il formante giurisprudenziale si è nel tempo consolidato recependo le antiche e sempre valide opinioni della dottrina specialistica del secolo scorso, secondo le quali la rinunzia alla cittadinanza - anche se associata all’accettazione di quella straniera - suppone la volontarietà del fatto posto a suo fondamento, sicché la cittadinanza mai può dirsi perduta dal cittadino ove a questi sia stata semplicemente impartita una cittadinanza straniera non a seguito di una sua domanda ma per concessione spontanea dello Stato straniero in base a una legge in esso vigente. L’impugnata sentenza, attribuendo sbrigativa rilevanza a elementi generici onde presumere, contestualmente, e l’accettazione tacita degli effetti della naturalizzazione e la tacita rinuncia alla cittadinanza italiana sia da parte di questi che, poi, da parte del figlio, non può considerarsi rispettosa dell’ambito di rilevanza del fenomeno infine integrato dalla perdita di un diritto come quello in esame, fondamentale e primario e acquisito a titolo originario per nascita. La caratura del diritto supponeva di arrestarsi dinanzi al dato che la perdita della cittadinanza italiana non può dirsi perfezionata da una qualche forma di accettazione di quella straniera, impartita per provvedimento generalizzato di naturalizzazione, desunta dal semplice silenzio, in quanto, in ossequio alla libertà individuale, la perdita della cittadinanza italiana non si può verificare se non per effetto di un atto volontario ed esplicito. Non potevano dunque rilevare i comportamenti meri, se non integrati da fatti positivi, equivalenti alla manifestazione di una volontà tesa scientemente ad acquisire la cittadinanza straniera, giacché il contraltare sarebbe stato quello di attribuire il significato di manifestazione di volontà a condotte indeterminate, e tramite questo di accettare il rischio di perdite della cittadinanza in qualche modo forzate o presunte o comunque automatiche, in chiara contraddizione non solo con le caratteristiche del diritto fondamentale ma anche con gli spunti di costituzionalità offerti – per quanto ad altro fine di rispetto dei principi di eguaglianza - dalle (pur richiamate) decisioni della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983. Il primo motivo di ricorso è fondato anche sul versante dell’esegesi dell’art. 11, n. 3, cod. civ. abr. La corte d’appello di Roma ha ritenuto integrata la fattispecie estintiva del diritto alla cittadinanza per derivazione della condotta di chi “senza permissione del governo” avesse “accettato impiego da un governo estero” o fosse “entrato al servizio militare di potenza estera”. Ha opinato che “per governo si deve intendere non tanto l’amministrazione pubblica, ma effettivamente l’organo di governo che regolamenta e consente al cittadino straniero di vivere e lavorare nel Paese ove è emigrato”; e ha integrato l’assunto dicendo che “peraltro sul punto non è stato allegato nulla in senso contrario dagli appellati”. La nozione di accettazione di un “impiego da un governo estero” non può che essere intesa, nell’art. 11, n. 3, del cod. civ. abr. come anche nell’art. 8, n. 3, della legge n. 555 del 1912, in allusione ai soli impieghi governativi strettamente intesi, quelli cioè che avessero posto la persona alle dirette dipendenze del “governo estero” nonostante il difetto di autorizzazione del governo italiano. La ratio era invero comune alla tradizione nazionale francese (essendo l’origine della norma rinvenibile, come quasi tutte quelle del codice civile del 1865, nel codice napoleonico del 1804): una tradizione refrattaria a che il cittadino potesse svolgere pubbliche funzioni all’estero tali da imporre l’assunzione di obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero, di natura stabile e tendenzialmente definitiva. Cosa d’altronde esplicitata nei lavori preparatori del testo del progetto del codice dell’Italia unita, e in particolare nella parte della relazione con cui, a proposito della fattispecie estintiva, si scrisse che nessuno può “conciliare i doveri verso il proprio Governo col servire a Governo straniero, sia nella milizia, sia in uffici pubblici”. È di solare evidenza come il periodare della norma fosse indicativo della restrizione verso lo svolgimento, da parte del cittadino, di attività (quali il servizio militare o le cariche o gli uffici pubblici) necessariamente implicanti giuramenti di fedeltà a governi esteri in quanto tali; sì che la cittadinanza si sarebbe perduta, in questi casi, ipso iure, salva “permissione” del governo nazionale. Esito: Accoglimento. Riferimenti normativi: L. n. 555/1912

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