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La messa alla prova

L'istituto della messa alla prova è stato introdotto con la Legge n. 68 del 28 aprile 2014 ed è entrato in vigore nel nostro ordinamento in data 17 maggio 2014.

A distanza di due anni dall'entrata in vigore della Legge sono emersi molteplici problemi applicativi e sostanziali che sono stati affrontati dalla Suprema Corte e dalla Corte delle Leggi quali, ad esempio, la compatibilità dell'istituto con alcuni principi costituzionali nonché la problematica assenza di una disciplina transitoria.

Nel proseguo dello scritto si analizzeranno quelle che si ritengono essere le principali problematiche a livello pratico.

Il nuovo istituto della messa alla prova costituisce una nuova causa di estinzione del reato e al tempo stesso un nuovo procedimento speciale e consiste ex. art. 168 bis c.p. nella prestazione di condotte volte all'eliminazione di conseguenze dannose derivante dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno, nell'affidamento dell'imputato al servizio sociale ed infine nella prestazione di lavoro di pubblica utilità.

Come noto, la richiesta di ammissione al nuovo rito può essere avanzata dall'imputato o indagato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, sino a che (i) non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p., (ii) fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio, (iii) entro il termine ex art. 458 co. 1 c.p.p. nel caso di decreto di giudizio immediato, (iv) con l'atto di opposizione nel procedimento per decreto penale. Questione di legittimità costituzionale dell'art. 460 c.p.p.

In ordine a questo primo punto concernete il meccanismo introduttivo del rito, pare opportuno soffermarsi ad analizzare, in particolare, il rapporto tra il decreto penale di condanna e l'istituto della messa alla prova.

La norma in esame è intervenuta modificando tutte le disposizioni relative ai singoli tipi di riti speciali, eccezione fatta per il Titolo V del Libro VI relativo al procedimento per decreto penale; infatti l'art. 460 lett. e) c.p.p. prevede che, mediante atto di opposizione a decreto penale, l'imputato possa chiedere il giudizio immediato, il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. senza specificare la possibilità di richiedere l'applicazione del nuovo istituto di messa alla prova.

Tale vuoto normativo è stato recentemente portato all'attenzione del Tribunale di Savona che si è fatto carico di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell'art. 460 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna debba contenere l'avviso all'imputato che ha facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per messa alla prova unitamente all'atto di opposizione (Trib. Savona, ord. 3 giugno 2015, in G.U. del 14 ottobre 2015, n. 41). Ad oggi siamo in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci in merito.

Sulla messa alla prova in fase di indagini preliminari


Un altro momento in cui può essere formulata la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova è, ai sensi dell'art. 464 ter c.p.p., durante la fase delle indagini preliminari prima che venga esercitata l'azione penale nanti al G.I.P.

La norma prevede che il Pubblico Ministero, a cui il G.I.P. trasmette la richiesta, deve entro il termine di cinque giorni esprimere per iscritto il consenso, formulando contestualmente l'imputazione, oppure il dissenso, enunciando in questo secondo caso le ragioni poste a fondamento di tale decisione.

Le prime perplessità, sul punto, sono maturate in relazione alla natura del dissenso espresso dal Pubblico Ministero, soprattutto perché la norma non prevede che in questo caso l'Accusa formuli l'imputazione; tale per cui il G.I.P., laddove ritenesse di ammettere comunque la messa alla prova, si troverebbe a dover pronunciare sentenza, senza che sia stato formulato un addebito formale.

Sul punto, può essere osservato che, da una parte, una lettura testuale della disposizione di cui all'art. 464 ter co. 2 c.p.p. (secondo cui il quale giudice provvede ad emettere ordinanza di ammissione se il P.M. presta il consenso), dovrebbe implicare, per converso, che il G.I.P. non possa decidere ex art. 464 quater c.p.p. se il P.M. abbia manifestato il proprio dissenso. Dall'altra, tuttavia, tale vuoto legislativo non può spingersi a trasformare l'istituto in un rito premiale applicabile su accordo delle parti, visto che nella fase successiva alle indagini preliminari, il dissenso del P.M. è assolutamente irrilevante rispetto alla valutazione dell'ammissione dell'istanza.

Una soluzione, a parere di chi scrive equilibrata, incontrata dalla dottrina sarebbe quella per cui il G.I.P. non potrebbe comunque decidere ai sensi dell'art. 464 quater c.p.p. in caso di dissenso dell'Accusa, prendendo atto della volontà negativa di una delle parti processuali e, quindi, pronunciare solamente ordinanza di inammissibilità.

Tale decisione sarebbe, in ogni caso, divergente rispetto all'ordinanza di rigetto, che sopravviene, invece, nel caso in cui, avuto il consenso del P.M. il giudice decida di non accogliere la richiesta, in quanto in quest'ultimo caso scatterebbe la preclusione di riproposizione della richiesta ex art. 464 ter co. 4 c.p.p.

Disciplinati i termini entro i quali la richiesta di messa alla prova deve essere avanzata, l'art. 464 bis c.p.p. prevede le modalità di presentazione della stessa: la norma, in particolare, richiede l'allegazione di un programma di trattamento ovvero la mera prova della richiesta di elaborazione del detto programma.

Nella quasi totalità dei casi, il richiedente si trova ad avanzare la richiesta di messa alla prova al giudice allegando solamente la prova richiesta di elaborazione del programma, che nella pratica consiste unicamente in una comunicazione email da inviare via PEC agli uffici dell'Esecuzione Penale Esterna (UEPE), mentre la presa in carico effettiva con consequenziale elaborazione del programma avviene in una seconda fase, a seguito di una vaglio preventivo del giudice e la comunicazione della data di rinvio dell'udienza.

Questa prassi consegue al fatto che in parallelo con l'intervento legislativo non è stata assunta alcuna misura a livello organizzativo degli uffici dell'UEPE per farsi che gli stessi fossero preparati ad affrontare le numerosissime richieste di elaborazione del programma di trattamento che sarebbero giunte in seguito all'entrata in vigore della legge n. 28/2014.

La detta richiesta di elaborazione del programma sembra, comunque, rappresentare condizione indispensabile per la delibazione da parte del giudice, anche alla luce della lettera dell'art. 141 ter disp. att. c.p.p., pur non essendo l'omessa allegazione espressamente sanzionata a pena di inammissibilità dalla norma.

Sul punto, la giurisprudenza ha ripetutamente dichiarato inammissibile l'istanza non corredata da un programma o da richiesta di elaborazione muovendo dal presupposto che tale requisito non è solamente formale ma, anche, sostanziale, assolvendo alle funzioni di attestare la volontarietà della sottoposizione alla prova e di attivare l'ufficio di esecuzione penale esterna (tra gli altri Tribunale di Taranto, Gip Rosati, 22 settembre 2015).

Occorre sottolineare che, comunque, la richiesta di messa alla prova non costituisce in alcun modo ammissione da parte del richiedente del fatto oggetto di imputazione e tale circostanza la si può desumere direttamente dalla lettera dell'art. 464 quater c.p.p. che prevede che il richiedente potrà essere sentito dal giudice solamente sulla volontarietà della richiesta presentata e non, invece, sul fatto e, dunque, non ne può sollecitarne la confessione.

Sono, altresì, intervenute sul punto da alcune pronunce della Suprema Corte nelle quali afferma che "l'ordinanza che ammette l'imputato alla messa alla prova, sospendendo il procedimento, non è subordinata all'ammissione del richiedente del fatto oggetto dell'imputazione" (Cass. Sez. 5, n. 24011, 23/02/2015 - dep. 04/06/2015).

Prima addentrarsi nel dettaglio degli aspetti di carattere processuale, pare opportuno indugiare su alcune altre problematiche sollevate dalla giurisprudenza a livello sostanziale, da primo per quanto concerne i limiti applicativi dell'istituto.

Sui limiti di applicazione dell'istituto


L'art. 168bis co. 1 c.p. disciplina in maniera assolutamente generica i limiti di applicazione del nuovo istituto prevedendone l'applicazione per i soli reati puniti con pena edittale non superiore ai quattro anni di reclusione sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria nonché per i delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio ex art. 550 c.p.p.

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