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Violenza privata: si configura anche nel caso in cui si costringe la “ex” a salire in macchina





ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. pen. Sez. II, 6 marzo 1989, n. 11641

Cass. pen. Sez. V, 27 febbraio 1998, n. 1195

Cass. pen. Sez. V, 17 dicembre 2003, n. 3403

Cass. pen. Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 11907

Difformi

Non vi sono precedenti citati


La Corte di Cassazione evidenzia che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’articolo 610 del c.p. non sia richiesta necessariamente una violenza o minaccia diretta, ben potendo avere anche altri comportamenti quella capacità di coartare la volontà altrui richiesta dalla fattispecie incriminatrice.

Il caso

Veniva tratto a giudizio un individuo in ordine al reato di violenza privata.

In particolare, all’imputato veniva contestato di avere costretto la sua ex convivente a salire a bordo della sua auto con violenze consistite nell’afferrarla con forza per le spalle e nel sottrarle il telefono cellulare con il ricatto di non restituirlo se non fosse tornata nel veicolo, nonché per averla intimorita lanciando a tutta velocità la propria autovettura al fine di indurla a confessare una presunta relazione con un nuovo compagno.

In primo grado, ritenuta attendibile la testimonianza resa dalla persona offesa e che le dichiarazioni della stessa fossero altresì supportate da quanto riferito dagli altri testimoni sentiti in dibattimento, veniva pronunciata sentenza di condanna.

Avverso tale sentenza proponeva appello l’imputato e la Corte di merito ribaltava il giudizio di prime cure ritenendo che dalla descrizione dei fatti fornita dalla persona offesa emergesse l’insussistenza del reato contestato.

Il ricorso

Contro la sentenza della Corte d’Appello proponeva ricorso per Cassazione la parte civile, articolando le proprie doglianze in quattro motivi.

Con il primo motivo veniva contestato il vizio della motivazione, giacché non erano state confutate compiutamente le argomentazioni della sentenza di condanna di primo grado.

Sul punto, veniva evidenziato come le Sezioni Unite con la sentenza Mannino del 2005 avessero sancito il principio secondo cui il giudice di appello, in caso di riforma radicale della pronuncia di primo grado, avesse l’obbligo di confrontarsi in modo preciso e completo con le argomentazioni della sentenza riformata.

Con il secondo motivo veniva altresì contestato il vizio di motivazione in relazione al fatto che la Corte d’Appello, pur riformando radicalmente la sentenza oggetto di impugnazione, non avesse provveduto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ed in particolare a riesaminare i testimoni, come sancito dall’articolo 6 della CEDU secondo il principio espresso dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo Dan/Moldavia del 2011, obbligo che non poteva ritenersi limitato al solo caso di reformatio in peius della pronuncia di prime cure.

Con il terzo motivo veniva dedotto l’omesso esame della memoria depositata dalla parte civile, lamentando al riguardo sia la nullità derivante dalla violazione del diritto di difesa sia la carenza della motivazione.

Con il quarto motivo veniva dedotto il vizio della motivazione nella parte in cui aveva escluso che la “violenza” che è elemento costitutivo della fattispecie descritta dall’articolo 610 del c.p. potesse consistere anche in una violenza “impropria”, attuata mediante mezzi anomali ma comunque in grado di esercitare una forza intimidatoria tale da comprimere la libertà di determinazione della vittima.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione dichiara infondati i primi tre motivi di gravame, ma accoglie il quarto annullando in relazione ad esso la sentenza impugnata.

Riguardo al primo motivo di impugnazione la Suprema Corte ritiene che la giurisprudenza citata dal ricorrente, che prevede la necessità di una confutazione precisa e completa delle argomentazioni della sentenza di primo grado, possa applicarsi solo al caso di reformatio in peius.

Infatti, sottolineano i giudici di legittimità che, mentre per affermare la responsabilità penale dell’imputato è necessario accertare tutti gli elementi dell’illecito, per escludere la stessa è sufficiente che venga meno anche solo un presupposto della fattispecie: pertanto, deve escludersi che in caso di riforma della sentenza in senso assolutorio sussista un obbligo di motivazione “rinforzata”, essendo sufficiente che la motivazione sia logica e non meramente apparente.

La Suprema Corte esclude altresì l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di riforma di una sentenza di condanna, rifacendosi in relazione a questo punto specifico alla consolidata giurisprudenza di legittimità.

Precisa, infatti, come l’obbligo di escutere nuovamente i testi derivante dall’articolo 6 della CEDU costituisca un corollario della regola fondamentale per cui la prova deve formarsi nel contraddittoriodelle parti, regola posta nell’esclusivo interesse dell’imputato e non estensibile nei suoi effetti al pubblico ministero ed alla parte civile e, dunque, tale da non consentire di fondare un obbligo di nuova escussione in caso di pronuncia assolutoria.

Inoltre, il ribaltamento in senso favorevole all’imputato della sentenza di condanna di primo grado senza rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è perfettamente coerente con la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 533 del codice di procedura penale, evidenziandosi in maniera chiara come la divergenza tra la decisione di primo e di secondo grado esprima necessariamente un ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza.

Anche il terzo motivo di ricorso viene respinto, implicitamente non rilevandosi il carattere decisivo dell’omissione lamentata in relazione alla motivazione della sentenza.

Viene ritenuto fondato, invece, il quarto motivo di impugnazione.

Al riguardo, la Suprema Corte sottolinea che la Corte d’Appello avesse escluso la sussistenza del reato di cui all’articolo 610 del c.p. per il fatto che l’imputato non avesse posto in essere alcuna concreta violenza fisica o minaccia, bensì atti di violenza verbale che la persona offesa aveva percepito come intimidatori, ma che di fatto non avevano compromesso la sua capacità di determinazione.

Nel pronunciarsi in tal senso la Corte di merito disattende il risalente insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il delitto di violenza privata non richiede necessariamente una violenza fisica o una minaccia esplicita, essendo sufficiente qualsiasi condotta idonea ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto che determini una compressione della libertà di azione altrui.

Andando più nel dettaglio, la Corte di Cassazione sottolinea come in numerose pronunce sia stato precisato il concetto di violenza “impropria” idonea ad integrare la fattispecie di cui all’articolo 610 del c.p., evidenziando come, ad esempio, configuri violenza privata: la condotta di chi apponendo una catena con lucchetto ad un cancello impedisca all’avente diritto di entrare nella propria abitazione, di chi afferri per le spalle una persona costringendola a fermarsi ed avere un contatto che altrimenti avrebbe evitato per impedirle di entrare in una cabina telefonica, di chi sostituisca la serratura della porta di accesso di un vano-caldaia impedendo al condomino di accedervi esercitando il proprio diritto di servitù ovvero di chi chiuda a chiave una stanza o un locale dell’abitazione impedendo alla moglie di accedervi.

Nel caso di specie, la Suprema Corte rileva delle carenze nella motivazione assolutoria, che non ha considerato che la parte offesa non volesse entrare nell’auto dell’imputato e fosse stata spinta all’interno del veicolo e che avesse consegnato il cellulare quale pegno per poter ottenere di salire in casa con la promessa di tornare in auto dopo aver preparato la cena per i figli, condotte queste integranti il suddetto concetto di violenza “impropria”.

Su tali basi la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per il grado di appello, trattandosi di impugnazione della sola parte civile.

Cassazione penale, sezione V, sentenza 13 giugno 2017, n. 29261

Lo studio legale Giovannoni e Bettella fornisce assitsenza e consulenza in materia.

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