google-site-verification=fW9ic3r_naxgruDksv5S6Ug4tN6LSm6wUy51njmsY0M Omissione del consenso informato: quando scatta il risarcimento?
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Omissione del consenso informato: quando scatta il diritto al risarcimento?








In caso di omissione del consenso informato, il risarcimento del danno alla salute può essere riconosciuto solo se il paziente alleghi e dimostri, anche in via presuntiva, che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze. Lo ha affermato il Tribunale di Napoli, sez. II, con la sentenza n. 8156, pubblicata il 24 settembre 2018.



PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

Conformi:

Cass. civ. sez. III, 31 gennaio 2018, n. 2369

Trib. Bari sez. II, 1 febbraio 2011

Trib. Roma sez. II, 13 dicembre 2010

Difformi:

Non si rinvengono precedenti


Il caso

La pronuncia in commento trae origine dal giudizio promosso da una paziente che si era sottoposta ad un intervento di mastoplastica additiva per il risarcimento di tutti i danni patiti per effetto degli esiti insoddisfacenti e dannosi dell’operazione. A seguito di alcune complicazioni, infatti, la paziente si era dovuta sottoporre ad una serie di nuovi interventi per la sostituzione della protesi impiantata, sino alla sua definitiva asportazione.

Responsabilità medica: come si calcola la prescrizione?

Preliminarmente, il giudice partenopeo affronta l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti. Chiarito che la fattispecie in esame configura un’ipotesi di inadempimento contrattuale, con conseguente applicazione del termine decennale di prescrizione, occorre individuare la data di decorrenza di tale termine. Sul punto, l’art. 2935 c.c. – secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” – collega la decorrenza del termine di prescrizione alla possibilità di far valere il diritto.

In tema di risarcimento del danno, l’impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione, è solo quello che deriva da cause giuridiche che ne ostacolano l’esercizio e non comprendono, quando il danno è percettibile e conoscibile da parte del pericolo, gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, tra i quali l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto o il dubbio soggettivo sull’esistenza di tale diritto od il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (così Cass. civ. sez. III, 19/07/2018, n. 19193). La percepibilità del danno, però, pur non dovendo valutarsi alla stregua di parametri soggettivi riguardanti la persona danneggiata, comunque va apprezzata secondo il parametro dell’ordinaria diligenza.

Nella fattispecie, pur avendo la stessa attrice dichiarato di aver avvertito, a distanza di breve tempo dal primo intervento, l’insorgere degli inconvenienti lamentati, si può ritenere che, a fronte delle rassicurazioni provenienti dal sanitario, la consapevolezza che vi fossero state vere e proprie complicanze operatorie sia insorta quando l’attrice, su indicazione del medico convenuto, decise di sottoporsi al secondo intervento operatorio: iniziando a decorrere da questo momento il termine prescrizionale, la lettera di messa in mora inviata dall’attrice a distanza di nove anni ha valore pienamente interruttivo della prescrizione.

Il consenso informato è necessario, specie in caso di complicanze frequenti

L’espletata consulenza tecnica d’ufficio ha escluso che, nella fattispecie, ricorresse un’ipotesi di “colpa medica” dei sanitari: il pregiudizio patito dall’attrice, infatti, è dipeso da una complicanza non riconducibile ad errori in corso di intervento o nel periodo perioperatorio. Tuttavia, soprattutto considerando che si tratta di una complicanza alquanto frequente in questa tipologia di interventi, era obbligo del sanitario dare specifiche informazioni alla paziente per consentirle di scegliere in maniera consapevole se operarsi o meno.

In proposito, la pronuncia in commento ricorda che l’informazione, alla stregua della diligenza professionale, deve riguardare tutti gli esiti dell’intervento ragionevolmente prevedibili, sia positivi che negativi. Un’adeguata informazione è elemento ineliminabile per la formazione del contratto avente ad oggetto una prestazione sanitaria: il medico ha, quindi, l’obbligo di acquisire il consenso informato e su di lui grava l’onere probatorio d’aver adeguatamente informato il paziente (cfr., ex plurimis, Cass. civ. sez. III, 21/09/2012, n. 16047; Cass. civ. sez. III, 09/12/2010, n. 24853).

Nella fattispecie, il giudice ritiene che la prova del consenso informato non sia stata acquisita.

L’assenza del consenso informato non fa sorgere automaticamente il diritto al risarcimento del danno alla salute. Ciò nonostante, il tribunale partenopeo esclude che l’assenza del consenso informato possa determinare automaticamente l’obbligo di risarcire il danno alla salute laddove, come nella specie, gli interventi sanitari siano stati correttamente eseguiti.

In questi casi, il risarcimento del danno biologico può essere riconosciuto solo se il paziente abbia allegato e provato, anche in via presuntiva, che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e sofferenze) (cfr. Cass. civ. sez. III, 31/01/2018, n. 2369). Infatti, se il paziente avesse comunque e consapevolmente acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo quali che ne fossero le conseguenze, anche all’esito di un’incompleta informazione, sarebbe insussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta del medico e la lesione della salute, proprio perché il paziente avrebbe, in ogni caso, consapevolmente subito quella incolpevole lesione, all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte del sanitario.

Nella fattispecie, la paziente non ha fornito tale prova. Anzi, l’insistenza manifestata dall’attrice nel sottoporsi a reiterati interventi di installazione di nuove protesi in luogo di quelle che avevano determinato i notevoli fastidi patiti lascia presumere che la paziente, anche se fosse stata a conoscenza delle prevedibili complicanze, non avrebbe modificato le proprie intenzioni.

L’omissione del consenso informato è autonomamente risarcibile

Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (cfr. Corte Cost. 23/12/2008, n. 438) e, quindi, alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest’ultima non potendo, peraltro, in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32, comma 2, Cost.).

Pertanto, dalla lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione determinata dalla violazione, da parte del sanitario, dell’obbligo di acquisire il consenso informato deriva, secondo il principio dell’id quod plerumque accidit, un danno-conseguenza autonomamente risarcibile – costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé stesso psichicamente e fisicamente – che non necessita di una specifica prova, salva la possibilità di allegazione e prova, da porte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (cfr. Cass. civ. sez. III, 15/05/2018, n. 11749).

Entro questi limiti, la domanda dell’attrice può essere accolta.

Contratto di spedalità e responsabilità della struttura sanitaria

Del fatto illecito del sanitario rispondono anche le strutture sanitarie coinvolte in virtù della conclusione del contratto atipico c.d. di spedalità, perfezionatosi con l’accettazione della paziente ai fini del ricovero per l’intervento programmato ed avente ad oggetto sia la prestazione di attività di assistenza medica, sia le prestazioni accessorie (quali, ad esempio, quelle inerenti all’organizzazione dei servizi, alla manutenzione dei macchinari, nonché alle prestazioni di vitto e alloggio derivanti dalla degenza in ospedale).

Pertanto, la responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata che sia) sussiste, sia in relazione a propri fatti d’inadempimento, sia per quanto concerne il comportamento dei medici, trovando applicazione la regola posta dall’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che, nell’adempimento dell’obbligazione, si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle sue dipendenze: si tratta della responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto, che prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, assumendo, invece, fondamentale rilevanza la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio. La responsabilità dell’ente, pertanto, trova fondamento, non già nella colpa (nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza), bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione (sull’argomento, cfr. Cass. civ. sez. III, 03/02/2012, n. 1620; Cass. civ. sez. III, 14/06/2007, n. 13953).

Tribunale di Napoli, sez. II, sentenza 24 settembre 2018, n. 8156

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