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Lavoro in nero


Come si difende il lavoratore dipendente che non è stato “denunciato” e che lavora in nero? La causa contro l’azienda, la responsabilità del datore di lavoro, i costi e le possibilità di vittoria.

Chiariamo subito una cosa: chi lavora in nero è considerato, dalla legge, un dipendente a tutti gli effetti e il contratto di lavoro, per quanto non formalizzato, si considera comunque in essere. Su questo presupposto si basa tutta la tutela del lavoratore in nero a cui si applicano le stesse garanzie del lavoratore subordinato “regolare” come, ad esempio, il divieto di licenziamento orale, l’obbligo della sussistenza di una giusta causa o del giustificato motivo per procedere al licenziamento, i minimi di busta paga previsti dalla contrattazione collettiva, ecc. Ma allora, perché fare causa per lavoro in nero? Di norma, il motivo principale è legato al versamento dei contributi previdenziali; ma le motivazioni potrebbero dipendere anche da un atteggiamento del datore di lavoro che, spesso, è portato a considerare i lavoratori in nero come soggetti di cui è più facile liberarsi ed a cui si può chiedere qualche ora di straordinario senza doverla poi giustificare in busta paga. Ecco, allora, cosa bisogna procurarsi per fare una causa per lavoro nero ed entro quanto tempo agire, quanto costa, a chi rivolgersi.

Ma chi è un «lavoratore in nero»? Si tratta del lavoratore per il quale non è stata inviata la comunicazione preventiva di assunzione, consistente nel modello telematico Unilav.


Deve, dunque, trattarsi di un lavoratore sconosciuto alla pubblica amministrazione.

La prima cosa che devi sapere se intendi agire contro il tuo datore di lavoro per fare una causa per lavoro in nero è il termine: hai cinque anni di tempo che però decorrono da quando è cessato il rapporto di lavoro, sia che ciò sia dipeso da tue dimissioni che da licenziamento dell’azienda. Dopo i cinque anni si verifica la prescrizione del diritto. Quindi, anche se hai prestato attività per molti anni, hai tutto il tempo per poter agire e difendere i tuoi diritti.

La seconda questione importante che deve conoscere chi ha in animo di avviare una causa per lavoro in nero è la prova: è chi agisce che deve dimostrare i fatti a fondamento del proprio diritto. In realtà, non è difficile da dimostrare un lavoro in nero quando si è prestato servizio per molti anni. Un’azienda contiene sempre tracce del passaggio di un dipendente: lo sanno i clienti che sono venuti in contatto con il personale, lo sanno i colleghi, lo sanno i fornitori, lo sanno le pubbliche amministrazioni e tutte quelle persone che hanno potuto parlare e vedere il dipendente sul posto di lavoro. Costoro potranno essere chiamati a testimoniare nella causa.

È necessario anche dimostrare l’orario lavorativo osservato. Su questo aspetto è possibile, ad esempio, ricorrere alle dichiarazioni di un familiare che abbia accompagnato o sia andato a prendere il dipendente all’orario di inizio e di fine del servizio.

Chi inizia una causa per lavoro in nero non ha, molto spesso, possibilità economiche per permettersi di pagare un avvocato. Così è possibile usufruire dell’avvocato gratis pagato dallo Stato (cosiddetto gratuito patrocinio) se il proprio reddito Irpef, in base all’ultima dichiarazione dei redditi, non supera 11.528,41 euro.

Si riducono anche i costi di tasse e bolli. Il contributo unificato è, infatti, dimezzato rispetto a quanto previsto nel giudizio ordinario. Per cui, se c’è da recuperare da 5.200 a 26mila euro si paga solo 118,50 euro; per cifre fino a 52mila euro si paga invece 259 euro, e così via.

C’è un aspetto importante che deve sapere chi vuol fare una causa per lavoro in nero: quasi sempre, in questi casi, il licenziamento avviene in forma orale e non per una giusta causa o giustificato motivo. Sicché, si tratta di tre violazioni di legge che possono comportare il reintegro in azienda o un ulteriore risarcimento del danno. Attenzione però: anche il licenziamento intimato nelle forme non di legge va impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione.

Quali sono i vantaggi di fare una causa di lavoro in nero? Oltre all’ottenimento della condanna al pagamento dei contributi previdenziali (che, altrimenti, resteranno scoperti e non consentiranno di maturare la pensione per tempo) e all’impugnazione del licenziamento, la vertenza consente anche di ottenere:

  • il Tfr qualora non versato,

  • le differenze di retribuzione rispetto ai minimi previsti dai contratti collettivi nazionali (Ccnl);

  • le retribuzioni non pagate;

  • gli straordinari;

  • i permessi mancati;

  • la malattia non riconosciuta;

  • la maternità non riconosciuta.

Denunciare il lavoro in nero

Se non si vuole intraprendere la via della causa e, tuttavia, ottenere tutela, si può denunciare il lavoro in nero alla Direzione del Lavoro, ufficio dell’Ispettorato del Lavoro. Le indagini comporteranno l’applicazione delle sanzioni nei confronti dell’azienda.

Il Jobs act [1] ha modificato la materia sulle sanzioni per lavoro nero e quelle per irregolarità nella gestione delle pratiche del rapporto di lavoro (registrazione dati, stipendio, busta paga). Un’altra novità è rappresentata dalla reintroduzione dell’istituto della diffida, in base al quale il personale ispettivo invita il datore di lavoro alla regolarizzazione, e può anche applicare uno sconto sulle sanzioni. In base alla nuova formulazione della norma, la diffida prevede:

  • la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, anche a tempo parziale, con una riduzione di orario non superiore al 50 per cento, oppure un contratto a tempo determinato, a tempo pieno, per un periodo non inferiore a tre anni;

  • il divieto di licenziare il lavoratore prima di tre mesi;

  • la prova dell’avvenuta regolarizzazione e del pagamento delle sanzioni entro 120 giorni dalla notifica del verbale.

Nel caso in cui il personale ispettivo riscontri ipotesi di lavoro nero alle quali è applicabile la maxisanzione, si deve diffidare il trasgressore a regolarizzare la posizione dei lavoratori coinvolti sotto il profilo contributivo, retributivo e lavoristico. Se il datore ottempera alla diffida, in caso di lavoro totalmente in nero, scattano le sanzioni. È anche possibile la sospensione dell’attività a discrezione degli organi di vigilanza.

Vediamo ora le conseguenze in caso di mancato adempimento alla diffida entro 120 giorni dalla sua notifica. Il verbale unico produce gli effetti della contestazione e notificazione degli addebiti accertati nei confronti del trasgressore e dell’obbligato in solido e, in caso di mancato pagamento delle richiamate sanzioni, gli organi di vigilanza sono tenuti a redigere e ad inviare alla sede dell’Ispettorato nazionale del Lavoro (già direzione territoriale del Lavoro) territorialmente competente un rapporto circostanziato, contenente anche apposite osservazioni in caso di presentazione di eventuali scritti difensivi.

A tale rapporto deve essere allegata tutta la documentazione probatoria utile alla prosecuzione del procedimento sanzionatorio. In tali casi, infatti, l’Ispettorato nazionale del Lavoro è deputato alla verifica tanto della correttezza procedimentale, quanto della fondatezza degli accertamenti svolti, ai fini dell’emanazione dei conseguenti provvedimenti di ingiunzione o di archiviazione.

Infine, c’è una rimodulazione anche delle sanzioni previste per evitare la sospensione dell’attività imprenditoriale, che scatta se i lavoratori in nero sono superiori al 20% della forza lavoro o in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela e sicurezza sul lavoro.

Cosa rischia chi lavora in nero?

Anche però il lavoratore in nero rischia se, mentre lavorava, ha percepito anche l’indennità di disoccupazione. Il lavoratore occupato in nero verrà segnalato all’Autorità Giudiziaria per il reato di «Falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico», nel dichiarare il proprio status di disoccupato all’ Inps. Egli rischia la reclusione fino a 2 anni. Inoltre, l’aver indebitamente percepito erogazioni ai danni dello Stato quale l’indennità di disoccupazione costituisce un reato punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. L’Inps gli chiederà la restituzione delle somme percepite indebitamente e forse il risarcimento dei danni subiti.


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