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Le criptovalute: gli orientamenti della giurisprudenza


Le criptovalute rappresentano un’interessante e significativa applicazione della tecnologia digitale al settore finanziario, tanto da essersi meritate, insieme alla tecnologia Blockchain, l’appellativo di “nuovo paradigma della finanza”. Di seguito si esaminano una serie di pronunce che hanno affrontato e risolto alcune problematiche sorte in seguito al loro utilizzo, sempre più intenso.

Premessa Sin dal momento in cui queste entità digitali hanno interessato l’economia globale, sono emerse una serie di problematiche di natura dogmatica e applicativa. Prima fra tutte: cosa deve intendersi esattamente per criptovaluta? L’innovazione principale legata alla sua nascita è da rinvenire nella possibilità di scambio della stessa attraverso una modalità diretta di transazione che prescinde dall’intervento di intermediari finanziari (peer to peer). Ogni criptovaluta ha proprie caratteristiche, il che non rende agevole la prospettazione di un quadro unitario e coerente, tuttavia, di seguito si fornisce un itinerario che riporta le più importanti pronunce giurisprudenziali italiane che hanno riguardato gli ambiti civile, amministrativo e anche penale, come anche le risoluzioni dell’amministrazione finanziaria che hanno tentato di orientare i comportamenti degli utenti del settore, ivi comprese le istituzioni. Un’interessante evoluzione del concetto di valore digitale e di blockchain è rappresentata dai Non Fungible Tokens (cosiddetti NFT), che consistono in codici digitali assimilabili a certificati che attestano l’unicità e la proprietà di un oggetto digitale. Al momento la regolamentazione degli NFT è inesistente, ma i recenti orientamenti europei fanno presagire degli interessanti sviluppi che potrebbero coinvolgere, oltre i token di pagamento e investimento anche quelli di utilità, di cui gli NFT potrebbero rappresentare un’espressione. Come accennato brevemente sopra, la criptovaluta viene intesa come sistema di pagamento digitale basato su una rete peer to peer, ma, la giurisprudenza è da sempre stata più propensa a riferirsi alla criptovalute come prodotti finanziari, date le caratteristiche intrinseche. La criptovaluta: una moneta su base convenzionale Tenuto conto che non è possibile equiparare la criptovaluta alla moneta, neppure elettronica, non avendo corso legale nello Stato italiano (come quasi in nessun altro stato, fatta eccezione per El Salvador e la recentissima Ucraina) è senza dubbio possibile intendere la stessa come mezzo di scambio in quanto, in base al principio consensualistico, si desume la liceità delle transazioni poste in essere con l’utilizzo delle valute virtuali. Sotto questo profilo la criptovaluta può svolgere la medesima funzione della moneta, con la fondamentale differenza che viene emessa privatamente e accettata dalle parti della transazione, senza alcun obbligo governativo e/o legislativo. La stessa Banca Centrale Europea non ritiene la criptovaluta, come le valute virtuali in genere, alla stregua di una vera moneta, considerando le stesse più propriamente come mezzi di scambio e non come mezzi di pagamento - si legga a riguardo il Parere su una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la Direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica la Direttiva 2009/10/CE del 12 ottobre 2016. Essendo l’attività di generazione delle criptovalute prestabilita nel limite massimo, il valore delle stesse è determinato esclusivamente ed inevitabilmente della domanda. La creazione stessa delle cripto ha portato ad elevare notevoli riflessioni in materia ambientale, dato che il mining (la cosiddetta estrazione attraverso cui vengono generate le criptovalute) sembrerebbe avere un forte impatto ambientale in termini di inquinamento. La prima pronuncia italiana (non di natura giurisdizionale) a chiarire il trattamento fiscale applicabile alle criptovalute è arrivata nel 2016 dall’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 72/E del 02/09/2016avente ad oggetto il “Trattamento fiscale applicabile alle società che svolgono attività di servizi relativi a monete virtuali” che ha definito il bitcoin come “moneta virtuale o meglio criptovaluta”, la cui “..circolazione, quale mezzo di pagamento si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato, che sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e di servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge.” Nell’inquadramento fornito dall’Agenzia delle Entrate viene fatta menzione della pronuncia della Corte Europea (Corte di Giustizia dell’UE del 22 ottobre 2015, causa C- 264/14) e nonostante i dubbi di carattere pratico derivati dalla su menzionata risoluzione, è stato chiaro l’intento di assimilare il trattamento fiscale delle criptovalute alla fattispecie tributarie delle valute estere, con conseguente previsione di dichiarazione nel quadro RW. La giurisprudenza ha da subito recepito questa linea. Si legga al riguardo la pronuncia T.A.R. Lazio, sez. II del 27/01/2020 n. 1077, “in materia di obblighi dichiarativi per il monitoraggio fiscale le valute virtuali devono qualificarsi redditi finanziari di provenienza estera, e come tali vanno indicate nel quadro RW.” Nel 2017 inoltre, il Legislatore italiano ha fornito la prima vera e propria definizione giuridica di moneta virtuale con il d.lgs. n. 90 che modificando l’art.1, c. 2, lett. qq) del d. lgs. 231/2007 (inserire titolo) la definisce come “rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.” Sull’argomento così si è espressa successivamente la Corte d’Appello di Brescia, sez. I, 30/10/2018, la quale ha affermato che: “La “criptovaluta” deve essere assimilata, sul piano funzionale, al denaro. Essa serve, infatti, come l'euro, per fare acquisti, sia pure non universalmente ma in un mercato limitato, ed in tale ambito opera quale marcatore (cioè quale contropartita), in termini di valore di scambio, dei beni, servizi, o altre utilità ivi oggetto di contrattazione. La “criptovaluta” è quindi da considerarsi, a tutti gli effetti, come moneta, e cioè quale mezzo di scambio nella contrattazione in un dato mercato, atto ad attribuir valore, quale contropartita di scambio, ai beni e servizi, o altre utilità, ivi negoziati. Non può pertanto essere considerata alla stregua di questi ultimi, che sono, come tali, suscettibili di acquisto con impiego di denaro, e perciò idonei ad essere economicamente oggetto di valutazione tecnica mediante perizia di stima. L'effettivo valore economico della "criptovaluta" non può in conseguenza determinarsi con la procedura di cui al combinato disposto dei due artt. 2264 e 2265 c.c. – riservata a beni, servizi ed altre utilità, diversi dal denaro – non essendo possibile, per le ragioni sopra esposte, attribuire valore di scambio ad un'entità essa stessa costituente elemento di scambio (contropartita) nella negoziazione. Non è, d'altro canto, dato conoscere, allo stato, un sistema di cambio per la "criptovaluta", che sia stabile ed agevolmente verificabile, come per le monete aventi corso legale in altri Stati (dollaro, yen, sterlina etc.).” Ed ancora anche la storica sentenza di qualche mese più tardi del Trib. Firenze, sez. fall., 21/01/2019, n. 18, caso Bitgrail. Che ha innanzitutto ritenuto “opportuno inquadrare giuridicamente il sistema delle c.d. criptovalute e in particolare la natura (materiale e giuridica) delle stesse, sulla base della legislazione vigente, della dottrina e della giurisprudenza in materia…” e le definisce “sotto il profilo tecnico, in via di assoluta semplificazione e prendendo spunto dagli studi in materia e dalle definizioni comuni” come “la rappresentazione informatica di un valore, decentralizzata e digitale la cui implementazione si basa sui principi della crittografia per convalidare le transazioni e la generazione di moneta in sé.” Ed ancora, sotto il profilo normativo, facendo riferimento al d.lgs. 90/2017 ha “rilevato come.. omissis..il legislatore nazionale abbia dato – seppur nell’ambito delle disposizioni dettate per la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo – una definizione di criptovaluta.” Il Tribunale di Firenze nella medesima pronuncia ha qualificato le criptovalute come beni ex art. 810 c.c. “in quanto oggetto di diritti” (“La criptovaluta deve qualificarsi come "bene", e come tale può essere oggetto di acquisto, scambio e deposito, ed è caratterizzata dall'essere bene fungibile, trattandosi di rappresentazioni digitali espresse in unità patrimoniali di un medesimo valore”). Questa affermazione è apparsa ai critici alquanto discutibile, poiché la stessa sentenza pare cadere in contraddizione nel punto in cui asserisce che “le criptovalute sono scambiate esclusivamente in via volontaria senza che vi sia un obbligo giuridico dei partecipanti al miscrosistema di accettare pagamenti di beni o servizi con criptovaluta.” A riguardo si richiama anche la pronuncia del T.A.R. Lazio sez. II ter del 27/01/2020 n. 1077 da cui è scaturita la seguente massima: “Le valute virtuali devono qualificarsi come beni immateriali, non svolgendo la funzione tipica della moneta, benché convenzionale, di unità di conto e riserva di valore, per via dell’estrema volatilità, nonché della mancanza di potere liberatorio nei pagamenti.” Criptovaluta come strumento finanziario speculativo Come precedentemente accennato, la criptovaluta viene senz’altro intesa anche come strumento finanziario speculativo, sempre in ragione della volatilità e della conseguente impossibilità di ancoraggio certo di valore. La stessa Risoluzione n. 72/E del 02/09/2016 sopra richiamata dell’Agenzia delle Entrate, nell’affrontare il profilo dell’utilizzo della criptovaluta bitcoin ha affermato che “Gli user utilizzano le monete virtuali, in alterativa alle valute tradizionali principalmente come mezzo di pagamento per regolare gli scambi di beni e servizi ma anche per fini speculativi attraverso piattaforme on line che consentono lo scambio di bitcoin con altre valute tradizionali sulla base del relativo tasso cambio (ad esempio, è possibile scambiare bitcoin con euro al tasso BTC/EURO).” La prima pronuncia dei giudici italiani che si riferisce al bitcoin come strumento finanziario è stata la sentenza del Tribunale Verona, Sez. II, 24/01/2017, n. 195 di cui si riporta la massima: “L'operazione di cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall'operatore ai propri clienti è qualificabile dal lato dell'operatore come attività professionale di prestazioni di servizi a titolo oneroso, svolta in favore di consumatori. Ciò in quanto i bitcoin rappresentano uno strumento finanziario costituito da una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer.” Dalla sentenza del Tribunale Firenze, sez. fall., 21/01/2019, n. 18, richiamata anche al punto 1), la seguente massima: “La criptovaluta può essere definita come una "digitalizzazione di valore", che viene utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi, caratterizzandosi per non essere emessa da una banca centrale o altra pubblica autorità e per non essere necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, e, in quanto tale, può essere oggetto di operazioni speculative in ragione dell'estrema variabilità dei livelli di fluttuazione che la caratterizza.” Rilevato quanto sopra vedasi anche la pronuncia della Cass. pen. sez. II del 10/11/2021 n. 44337 in cui si afferma che “il bitcoin può ritenersi un prodotto finanziario qualora sia acquistato con finalità di investimento” Ed anche Cass. pen. sez. II, 17/09/2020, n. 26807: “Le criptovalute (valute virtuali o bitcoin) sono prodotti finanziari laddove la vendita delle stesse sia reclamizzata come una proposta di investimento e, in tal caso, trattandosi di attività soggetta agli adempimenti di cui al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (Tuf), l'omissione integra il reato di abusivismo finanziario di cui all'articolo 166, comma 1, lettera c), del Tuf (decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58).” Le suddette pronunce sono in linea con quanto affermato a suo tempo nella Risoluzione n. 72/E dell’Agenzia delle Entrate, in cui si ricava l’intento di tassare solo le plusvalenze che derivano da cessioni a titolo oneroso delle criptovalute di cui si acquista o si mantiene la disponibilità a fini di investimento e, per ovviare il problema della volatilità del fenomeno in termini di valore, l’amministrazione finanziaria ha “imposto” la tassazione esclusivamente nei casi in cui la giacenza dei depositi intrattenuti dal contribuente superi i 51.645,69 € per sette giorni lavorativi. Secondo la medesima pronuncia con riferimento alle operazioni di acquisto e vendita dei privati, queste non genererebbero redditi imponibili per mancanza di attività speculativa. Si richiama a riguardo la pronuncia della Comm. Trib. Reg. Venezia, sez. II, 06/12/2021, n. 1505: “Tassabile la plusvalenza derivante da cessione di bitcoin; “I bitcoin sono da includere tra le valute per le quali le plusvalenze, realizzate mediante cessione onerosa a seguito di operazioni di acquisto o vendita tra privati, costituiscono redditi diversi ai sensi dell’art. 67 Tuir, in particolare tra quelli rientranti nella lettera c-ter). Tali plusvalenze, ai sensi di quanto dispone l’art. 68, commi 5 e 6, Tuir, concorrono a formare il reddito imponibile e vanno tassate con l’aliquota del 26%;”. Conclusioni Sebbene siano trascorsi diversi anni dall’ingresso nel mercato delle criptovalute, queste possono ritenersi ancora delle vere e proprie novità, vista l’evoluzione tecnologica e, soprattutto, la carenza di interventi normativi che siano al passo con le necessità digitali. Ancor di più, se si considera il fenomeno degli NFT e il loro ampio margine applicativo (dalla moda fino al mondo dell’arte), che si scontrano con l’inadeguatezza dei legislatori di inquadrarli in uno specifico genus. Allo stato di fatto, pertanto, risulta ancor più legittimo domandarsi come possano gli organi giudicanti pronunciarsi in merito a questioni che si innescano in ben più ampi e complessi paradigmi dettati dall’innovazione tecnologica che va avanti a velocità doppia rispetto a quella normativa. Certamente l’evoluzione delle criptovalute, degli NFT e, più in generale, della tecnologia blockchain passerà anche dalle aule di Tribunale e sarà opportuno e necessario monitorare le diverse decisioni a cui assisteremo nell’imminente futuro.

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