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Violenze domestiche: Italia nuovamente condannata

Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva dell’inerzia delle autorità italiane che, a fronte di plurime denunce di casi di violenza domestica, posta in essere dal marito di una nostra connazionale, non erano state tempestive nel perseguire penalmente i reati commessi, la Cedu, sez. I, 7 luglio 2022, n. 32715/19, ha ritenuto, all’unanimità, che vi fosse stata una violazione dell'aspetto sostanziale dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in relazione al periodo dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008 nonché una violazione dell'aspetto procedurale dell'articolo 3 della medesima Convenzione. Il caso riguardava la violenza domestica a cui era stata sottoposta la ricorrente dal marito. La donna si era lamentata, in particolare, del fatto che lo Stato italiano non l'aveva protetta e assistita. Aveva anche sostenuto che le autorità italiane non avevano agito con la diligenza e la tempestività richieste, tanto che il perseguimento di diversi reati non era stato possibile perché nel frattempo gli stessi erano stati dichiarati prescritti. Il caso Il caso, deciso il 7 luglio u.s., traeva origine dal ricorso (n. 32715/19) contro l’Italia, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione e.d.u., da Maria Scavone, una nostra concittadina, di professione avvocato, e residente a Tito. Il 18 aprile 2004 la donna aveva presentato una prima denuncia penale sostenendo di essere stata aggredita dal marito, D.P. Il 19 gennaio 2007, quest’ultimo si è recato presso lo studio della Scavone per discutere della loro separazione. La ricorrente era assistita da suo cognato, L.S., e da un collega. Durante la discussione l’ex marito aveva provato ad aggredire la Scavone ed aveva in quell’occasione ferito L.S. alla gamba con un coltello quando quest'ultimo era intervenuto per difenderla. La stessa sera la Scavone aveva sporto denuncia in Questura. Il 20 gennaio 2007 i carabinieri avevano informato il pubblico ministero dei reati di cui il D.P. era stato accusato e avevano trasmesso gli atti delle dichiarazioni rese dalla ricorrente, ossia quelle del collega che era stato presente durante l'aggressione e di altri testimoni, unitamente al certificato medico riguardante L.S. I carabinieri avevano continuato ad indagare sulle accuse mosse dalla ricorrente nelle denunce presentate il 7 febbraio, il 24 marzo ed il 27 aprile 2007. Il 24 ottobre 2007 il pubblico ministero ha chiesto al GIP di rinviare a giudizio D.P. per i reati commessi il 19 gennaio 2007. Sette anni dopo i fatti, il 27 giugno 2014, il Tribunale di Potenza aveva ritenuto D.P. colpevole delle accuse mosse, condannandolo alla pena di un anno di reclusione per le ferite riportate da L.S. ed alla pena di un anno di reclusione per maltrattamenti ai danni della ricorrente. La sentenza era stata depositata in cancelleria circa nove mesi dopo, nel marzo 2015. D.P. aveva quindi impugnato la sentenza di primo grado il 23 maggio 2015. Con sentenza del 10 giugno 2016 la Corte d'Appello, tuttavia, dichiarava estinti per prescrizione i reati per i quali era stato condannato l’ex marito. In precedenza, in data 7 febbraio 2007, la Scavone aveva presentato ulteriore denuncia e aveva chiesto all’autorità giudiziaria di intervenire per porre fine alle molestie nei suoi confronti da parte di D.P. Il 27 aprile 2007 la ricorrente aveva presentato un'altra denuncia penale, sostenendo di aver ricevuto minacce da parte di un individuo sconosciuto mentre D.P. era presente, oltre a telefonate anonime, e che uno dei suoi figli era stato seguito da D.P. Aveva quindi chiesto ai carabinieri di dare un avvertimento a D.P. di smettere di molestarla e seguirla. Il 16 giugno 2008 la ricorrente aveva sporto denuncia sostenendo di continuare a ricevere minacce da D.P. Il 19 settembre 2008 aveva sporto ulteriore denuncia ai carabinieri in quanto D.P. l'aveva minacciata verbalmente e fisicamente. Il 7 ottobre 2008 era stata chiamata la polizia a seguito di una segnalazione di un’aggressione fuori da un bar. D.P. aveva colpito alla testa e in altre parti del corpo la Scavone, usando un bastone. Alla donna veniva rilasciata una prognosi di dieci giorni a causa delle lesioni riportate. Ne era seguito un nuovo procedimento penale. Il 21 ottobre 2008 la polizia aveva chiesto al pubblico ministero di chiedere una misura cautelare, sottolineando che il D.P. si era comportato violentemente nei confronti della ricorrente. In data 21 novembre 2008 il GIP aveva emesso un provvedimento cautelare con cui disponeva l’obbligo di dimora nei confronti del D.P. Nella mattinata del 20 febbraio 2009 il giudice aveva però dichiarato l'ordinanza inefficace per decorrenza del termine di fase della custodia cautelare non detentiva previsto dal codice di procedura penale. Il pubblico ministero aveva pertanto chiesto la sostituzione dell’obbligo di dimora con il divieto di dimora nel comune di Potenza unitamente all’obbligo di presentazione alla Questura. Il GIP aveva ritenuto infondata la richiesta in quanto non erano emersi nuovi fatti che facessero ritenere che le ragioni specifiche che giustificavano la misura (ritenuta inefficace) fossero venute meno. Ha quindi riqualificato la richiesta del PM, emettendo un'ordinanza con cui vietava al D.P. di dimorare nel comune di Potenza, ma consentendogli di assistere alle udienze. Il 10 aprile 2015, circa sei anni dopo, il tribunale distrettuale aveva ritenuto D.P. colpevole delle accuse mosse nei suoi confronti, condannandolo alla pena condizionalmente sospesa di sedici mesi di reclusione. Tuttavia, il tribunale aveva stabilito che i reati di maltrattamento erano prescritti. A seguito del ricorso del D.P. la Corte d'Appello aveva deciso in data 10 marzo 2016 che anche i residui reati di maltrattamento erano prescritti. Aveva quindi condannato D.P. ad un anno e un mese di reclusione solo in relazione alle lesioni provocate alla ricorrente dall'aggressione con un bastone. D.P. aveva proposto ricorso che era stato respinto dalla Corte di Cassazione in data 22 gennaio 2018. Nel frattempo, in data 26 maggio 2010, la Scavone presentava un'ulteriore denuncia, sostenendo di essere stata minacciata e molestata continuamente. Un'altra denuncia era stata depositata il 27 maggio 2010, nella quale la ricorrente sosteneva di essere stata seguita e minacciata da D.P. La denuncia veniva poi integrata da un’altra denuncia depositata il 2 agosto 2010 volta a fornire alla polizia una panoramica dettagliata dei fatti. Il 7 settembre 2010 la Scavone presentava un'altra denuncia, in cui affermava che un furgone aveva iniziato a seguirla mentre lei si trovava alla guida. Veniva aperta un'indagine. Il 7 maggio 2012 la ricorrente proponeva nuovamente denuncia sostenendo che il D.P. continuava a minacciarla e seguirla. In data 11 giugno 2012 il D.P. veniva fatto oggetto di un avviso orale da parte della polizia e gli veniva formalmente chiesto di comportarsi in modo rispettoso della legge. Era stato avvertito che avrebbe potuto essere deferito alle autorità giudiziarie in caso di inosservanza. Con sentenza del 5 novembre 2020, otto anni dopo l'avvio del procedimento, Il tribunale distrettuale aveva condannato il D.P. a tre anni di reclusione per stalking, assolvendolo dall’accusa di estorsione. In data 12 luglio 2013 la Scavone aveva sporto una nuova denuncia sostenendo di essere stata molestata telefonicamente dal suo ex marito e di essere stata seguita mentre tornava a casa. Aveva dichiarato che, nonostante che l'11 giugno 2012 la polizia avesse intimato al suo ex marito di desistere dal suo comportamento, si sentiva in pericolo. Il 16 luglio 2013 la ricorrente aveva chiesto l'applicazione di una misura cautelare. Il 17 gennaio 2017, D.P. veniva rinviato a giudizio con l'accusa di molestie in relazione agli eventi avvenuti tra il 4 e il 20 novembre 2013. Il procedimento è tuttora pendente. Il ricorso e le norme violate Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi, in particolare, sugli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo), la ricorrente aveva sostenuto che le autorità italiane, nonostante fossero state più volte allertate delle violenze del marito, non avevano adottato le misure necessarie e appropriate per proteggerla da un reale e noto pericolo e non avevano impedito il verificarsi di ulteriori violenze domestiche. La ricorrente aveva inoltre osservato che diversi procedimenti erano stati interrotti in quanto i reati erano stati dichiarati prescritti a causa della durata dei processi e che alcuni erano ancora pendenti. Secondo la ricorrente, le autorità non si erano quindi conformate ai loro obblighi positivi ai sensi della Convenzione. Il ricorso veniva depositato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo il 5 gennaio 2018. La decisione della Corte di Strasburgo Esaminando il ricorso sotto il profilo della violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte di cassazione ha preliminarmente osservato che, da un punto di vista complessivo, il quadro normativo italiano era adeguato a garantire protezione contro atti di violenza da parte di privati. La Corte EDU ha rilevato che la polizia aveva risposto senza indugio alle denunce presentate dalla ricorrente dal gennaio 2007 in poi ed era intervenuta durante i violenti incidenti. Tuttavia, la Corte ha operato una distinzione tra due periodi distinti. La Corte ha rilevato che nel primo periodo, dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008, le autorità erano venute meno al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di una reiterazione della violenza contro la ricorrente e di adottare misure operative preventive a mitigare quel rischio. Nessuna misura era stata adottata dalle autorità per un periodo di circa tredici mesi. D.P. non era stato arrestato, né misure cautelari o protettive erano state disposte nei suoi confronti, nonostante un’aggressione a mano armata con un coltello e le varie denunce di maltrattamenti, molestie e minacce. Non era stata effettuata alcuna valutazione del rischio fino a quando non era stata richiesta una misura cautelare, cioè vale a dire, tredici mesi dopo la prima denuncia, sebbene vi fossero stati segnali di un'escalation del comportamento violento di D.P. Il suo rinvio a giudizio era stato richiesto dieci mesi dopo l'aggressione, e l'udienza preliminare si era svolta diciannove mesi dopo. A giudizio della Corte, in tutto questo lungo periodo i rischi di violenza contro la ricorrente non erano stati adeguatamente valutati o presi in considerazione. Per quanto riguarda il secondo periodo, dal 21 ottobre 2008 fino al deposito dell'istanza presso la Corte nel 2019, la Corte EDU ha ritenuto che le autorità avessero svolto un'attività autonoma, propositiva e una valutazione completa del rischio. Gli agenti di polizia non si erano limitati a fare affidamento sul resoconto che la ricorrente aveva fatto degli eventi, ma avevano basato la loro valutazione su diversi altri fattori ed elementi di prova. Avevano assunto le prove dalle persone direttamente coinvolte, cioè dalla ricorrente e dalle persone da lei indicate, i suoi genitori e i testimoni delle violente aggressioni, e avevano eseguito una verbalizzazione dettagliata delle loro dichiarazioni. In particolare, gli agenti di polizia avevano tenuto conto del fatto che la ricorrente era molto spaventata e che le erano state rivolte minacce. Avevano espressamente rilevato una serie di altri fattori di rischio rilevanti, vale a dire gli atti violenti precedentemente segnalati e l'escalation del comportamento violento, e anche i fattori di stress che avevano colpiscono la famiglia in quel periodo. Avevano chiesto una misura cautelare disposta dal GIP. I rischi di una reiterazione della violenza erano stati adeguatamente presi in considerazione. La Corte ha anche osservato che i pubblici ministeri avevano avviato tre distinte serie di procedimenti penali contro D.P. in merito ai reati per i quali era sospettato. Per quanto riguarda il primo periodo, la Corte ha ritenuto che le autorità avessero fallito nel rispettare il loro obbligo positivo di cui all'articolo 3 consistente nel tutelare la ricorrente dalla violenza domestica commessa da D.P., e ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell'aspetto sostanziale dell'articolo 3 della Convenzione. Quanto al secondo periodo, la Corte ha invece ritenuto che le autorità avessero rispettato il loro obbligo positivo ai sensi dell'articolo 3 di proteggere la ricorrente dalla violenza domestica commessa da D.P., e ha ritenuto che non vi fosse stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione al riguardo in tal periodo. La Corte di Strasburgo ha ribadito che, tra gli elementi caratterizzanti un'efficace indagine ai fini dell'articolo 3 della Convenzione, il fatto che l'accusa non fosse soggetta al rischio di possibile prescrizione prevista dalla legge era di fondamentale importanza. Inoltre, in precedenza aveva ritenuto che le amnistie e la grazia non dovrebbero essere tollerate nei casi di tortura o maltrattamenti inflitti da funzionari pubblici. Tale principio era stato esteso anche agli atti di violenza commessi da privati. La Corte ha ritenuto che i reati legati alla violenza domestica, anche se commessi da privati cittadini, dovrebbero essere classificati tra i reati più gravi. Secondo la giurisprudenza della Corte, era incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall'art. 3 che gli accertamenti di tali reati cessino con la prescrizione prevista dalla legge derivante dall'inerzia delle autorità. La Corte EDU ha osservato a tal proposito che le autorità giudiziarie avevano aperto quattro indagini sulle accuse della ricorrente di aggressione, molestie, minacce e maltrattamenti. Per quanto riguarda la prima indagine, riguardante l'aggressione del gennaio 2007, la sentenza era stata emessa nel giugno 2014, sette anni dopo i fatti. Nel giugno 2016 la Corte d'Appello aveva stabilito che l’azione penale non era più procedibile in quanto i reati di cui D.P. era stato accusato si erano prescritti. Quanto alla seconda indagine, relativa alle denunce depositate tra febbraio 2007 e ottobre 2008 e le lesioni riportate nell'aggressione del mese di ottobre 2008, la Corte EDU ha rilevato che la sentenza era stata pronunciata nell'aprile 2015 e che D.P. era stato condannato solo in relazione alle lesioni inferte alla ricorrente, in quanto i reati di maltrattamenti si erano prescritti. Nel marzo 2016 la Corte d'Appello aveva dichiarato i restanti reati, ad eccezione del reato di lesioni, prescritti. Quanto alla terza indagine, relativa alle denunce presentate nel 2010, la Corte ha preso atto che il Tribunale distrettuale aveva pronunciato la sentenza in data 5 novembre 2020, a dieci anni dai fatti. Infine, per quanto riguarda l'ultima indagine in merito alle molestie relative alle denunce presentate nel 2013, il procedimento era ancora pendente innanzi al tribunale distrettuale. Nelle particolari circostanze del caso, non si può dire che le autorità italiane abbiano agito con sufficiente tempestività o ragionevole diligenza. In conseguenza di tale inadempimento, D.P. aveva potuto agire nella quasi totale impunità. Nella presente causa la Corte ha ritenuto che una situazione in cui le autorità nazionali, in primo luogo – sulla base dei meccanismi che disciplinano i termini di prescrizione nel quadro normativo nazionale – avevano operato in un sistema in cui la prescrizione legale era strettamente legata all'azione penale anche dopo l’inizio del procedimento e, in secondo luogo, avevano perseguito il caso con un grado di “inerzia giurisdizionale” incompatibile con tale disciplina, non potesse ritenersi conforme ai requisiti dell’art. 3 della Convenzione. La Corte ha dunque riscontrato una violazione dell'aspetto procedurale dell'articolo 3. Quanto, poi, alla denunciata violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l'articolo 3 CEDU, la Corte di Strasburgo ha preso atto del fatto che dal 2017, e dall'adozione della sentenza nel caso Talpis c. Italia, l'Italia aveva provveduto ad attuare la Convenzione di Istanbul, dimostrando così un impegno politico genuino per prevenire e combattere la violenza contro le donne. A partire dal 2008, una serie di norme successive era già state adottata. La Corte ha sottolineato che alcuni degli eventi verificatisi nel presente caso erano antecedenti a quelle riforme. La Corte non ha ritenuto sufficiente il fatto che la ricorrente avesse prodotto prove prima facie evidenti dell’inerzia da parte dell'autorità giudiziaria quando si trattava di fornire una tutela effettiva alle donne vittime di violenza domestica, o segnali di una possibile discriminazione nelle misure o pratiche adottate dalle autorità nel suo caso. Allo stesso modo, la ricorrente non ha sostenuto che gli investigatori avessero cercato di dissuaderla dall’avviare un procedimento contro D.P. o dal testimoniare contro di lui, né che gli stessi avessero tentato in qualsiasi modo di ostacolarla nel presentare le denunce con cui chiedeva protezione contro la presunta violenza. La Corte non ha quindi trovato prove per dimostrare che le autorità che si occupavano del caso della ricorrente avessero agito in modo discriminatorio, o con intento discriminatorio, nei suoi confronti. La Corte ha dunque concluso che le mancanze lamentate nella presente causa derivavano dall’inerzia delle autorità, sebbene indubbiamente riprovevole e contraria alla Convenzione, ma che la stessa non poteva essere ritenuta di per sé rivelatrice di un atteggiamento discriminatorio da parte delle autorità. Tale doglianza è stata pertanto respinta in quanto manifestamente infondata. La Corte ha infine stabilito che l’Italia debba corrispondere alla ricorrente, a titolo di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, la somma di 10.000 euro a titolo di risarcimento dei danni, oltre alla somma di 18,95 euro a titolo di costi e spese vive. I precedenti ed i possibili impatti pratico-operativi Di interesse la questione esaminata dalla Corte di Strasburgo nel caso qui commentato, in cui la Corte Europea si sofferma nuovamente sul tema del divieto di trattamenti inumani e degradanti, sotto il profilo del diritto ad ottenere il reale ed effettivo perseguimento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria a fronte di denunce, soprattutto se reiterate di violenza domestica, divieto che viene violato dallo Stato quando, per la negligente inerzia dei suoi organi giurisdizionali, il processo nei confronti dell’autore di tali gravi reati non giunge a conclusione, assicurando il colpevole alla giustizia, a causa del sopraggiungere della “tagliola” rappresentata dalla prescrizione. Il caso esaminato dalla Corte, che ha visto l’Italia nuovamente sul banco degli imputati e condannata, è emblematico delle disfunzioni che il ritardo nella definizione dei procedimenti giudiziari (ed anche nel deposito delle relative sentenze) provoca rispetto agli obblighi positivi di tutela previsti dall’art. 3 CEDU, sia sotto il profilo sostanziale che quello procedurale. La Corte, in particolare, stigmatizza il comportamento negligente delle autorità giudiziarie che hanno impiegato troppo tempo per giungere ad una sentenza di condanna a fronte delle ripetute denunce di episodi di violenza domestica di cui la ricorrente era stata sfortunata protagonista. L’esito del procedimento davanti al giudice di Strasburgo non poteva dunque non essere quello registrato. Il tema è particolarmente sentito nella giurisprudenza della Corte EDU. Ed infatti, premesso che la Corte EDU non è vincolata dalle denunce di violazione di uno o più articoli per come prospettate da un ricorrente ai sensi della Convenzione e dei suoi Protocolli e che può decidere sulla qualificazione giuridica da attribuire ai fatti di un ricorso, esaminandoli nell'ambito di articoli o disposizioni della Convenzione diverse da quelle invocate (CEDU, Radomilja e altri c. Croazia [GC], 20 marzo 2018, n. 37685/10 e 22768/12, § 126), alla luce della sua giurisprudenza e in relazione alla natura delle censure presentate, di regola la Corte ritiene che le questioni sollevate vadano esaminate esclusivamente dal punto di vista degli obblighi positivi e procedurali di cui all’art. 3 CEDU. La Corte è poi solita ricordare che, per rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 3, il maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità. L'apprezzamento di questo minimo dipende da tutti i dati del singolo caso, in particolare la natura e il contesto del trattamento, la sua durata, le conseguenze sul piano fisico e mentale, ma anche il sesso della vittima e il rapporto tra la vittima e l'autore del trattamento. Maltrattamenti che raggiungono una soglia così minima di gravità di solito comportano danni fisici o gravi sofferenze fisiche o mentali. Tuttavia, anche in assenza di tale abuso, non appena il trattamento umilia o degrada un individuo, testimoniando la mancanza di rispetto per la sua dignità umana o sminuendola, o suscitano nella persona interessata sentimenti di paura, ansia o inferiorità specifici e idonei a ledere la sua resistenza morale e fisica, possono essere qualificati come degradanti e rientrano quindi anche nel divieto di cui all'articolo 3 (CEDU, Bouyid c. Belgio [GC], 28 settembre 2015, n. 23380/09, §§ 86-87). La Corte ha anche riconosciuto che, oltre alle lesioni fisiche, l'impatto psicologico è un aspetto importante della violenza domestica (CEDU, Valiulienė c. Lituania, 26 marzo 2013, n. 33234/07, § 69; CEDU, Volodina c. Russia (n. 2), 14 settembre 2021, n. 40419/19, §§ 74-75). L'articolo 3 non si riferisce esclusivamente all'inflizione della sofferenza fisica, ma anche a quella della sofferenza morale che è causata dalla creazione di uno stato di ansia e stress con mezzi diversi. La paura di ulteriori aggressioni deve però essere abbastanza grave al punto da provocare sulle vittime di violenza domestica un dolore e un’ansia tali da raggiungere la soglia minima per l'applicazione dell'articolo 3 (CEDU, Eremia c. Repubblica di Moldova, 28 maggio 2013, n. 3564/11, § 54; CEDU, TM e CM c. Repubblica di Moldova, 28 gennaio 2014, n.26608/11, § 41; Volodina, sopra citata, § 75). La Corte ribadisce che spetta alle autorità dello Stato adottare misure per proteggere un individuo la cui integrità fisica o psicologica è minacciata dagli atti criminali di un membro della famiglia o del suo partner (CEDU, Kontrová c. Slovacchia, 31 maggio 2007, n. 7510/04, § 49; CEDU, M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012, n.40020/03, § 105; CEDU, Opuz c. Turchia, 9 giugno 2009, n.33401/02, § 176). L'ingerenza delle autorità nella vita privata e familiare può diventare necessaria per tutelare la salute e i diritti di una vittima o per prevenire atti criminali in alcune circostanze. In molti casi, anche quando le autorità non sono rimaste totalmente passive, non hanno comunque adempiuto ai loro obblighi, ed incombe su di loro, comunque ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione assolverli, in quanto le misure prese non hanno impedito all'aggressore di perpetrare ulteriormente violenze contro la vittima (si vedano i riferimenti giurisprudenziali nella sentenza Volodina, sopra citata, § 86). Risulta dalla giurisprudenza CEDU che gli obblighi positivi che gravano sulle autorità ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione includono, in primo luogo, l'obbligo di porre in essere un quadro normativo e di protezione regolamentare, in secondo luogo, in determinate circostanze ben definite, l'obbligo di adottare misure operative a tutelare determinate persone dal rischio di trattamenti contrari a questa disposizione e, in terzo luogo, l'obbligo di svolgere un'efficace indagine sulle accuse mosse e che infliggono tale trattamento. Così, in generale, le prime due parti di questi obblighi positivi sono qualificate come “materiali”, mentre la terza corrisponde all'obbligazione positiva incombente di tipo “procedurale” sullo Stato (CEDU, Tunikova e altri c. Russia, 14 dicembre 2021, n. 55974/16 e altri 3, § 78; Volodina, sopra citata, § 77; CEDU, X e altri c. Bulgaria [GC], 2 febbraio 2021, n.22457/16, § 178; CEDU, Kurt c. Austria [GC], 15 giugno 2021, n.62903/15, § 165, con la giurisprudenza ivi citata). La Corte ha recentemente chiarito la portata e il contenuto dell'obbligo positivo per lo Stato per prevenire il rischio di violenze ricorrenti nel contesto di violenza domestica nel caso Kurt (cit., §§ 157-189). Possono essere così riassunti (ibid., § 190): a) le autorità devono reagire immediatamente alle accuse di violenza domestica; b) quando tali accuse sono portate alla loro attenzione, le autorità devono stabilire se esiste un rischio reale e immediato per la vita delle vittime di violenza domestica che sono state identificate e devono tempestivamente condurre una valutazione del rischio che sia autonoma, proattiva ed esauriente. Devono tenere in debita considerazione il contesto particolare che è quello dei casi di violenza domestica nella valutazione del carattere di rischio reale e immediato; c) quando tale valutazione evidenzi l'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita altrui, le autorità sono obbligate ad adottare misure operative di tipo preventivo. Queste misure dovrebbero essere adeguate e proporzionate al livello del rischio individuato.La Corte ha esaminato questo obbligo positivo, in alcuni casi ai sensi degli articoli 2 o 3 e negli altri casi sotto quello dell'articolo 8 da solo o in combinato disposto con l'articolo 3 della Convenzione (Volodina, sopra citata). In particolare, la Corte è solita ricordare che, al fine di stabilire se le autorità avrebbero dovuto avere conoscenza del rischio ripetuto di atti di violenza, in un certo numero di casi, devono essere registrati e tenuti in conto i seguenti elementi: 1) storia dell'autore del comportamento violento e violazione dei termini di un ordine di protezione (Eremia, sopra citata, § 59); 2) l'escalation della violenza che rappresenta una minaccia continua per la salute e la sicurezza delle vittime (Opuz, sopra citata, §§ 135-36); 3) le ripetute richieste di aiuto da parte della vittima attraverso chiamate di emergenza, nonché denunce formali e richieste rivolte ai vertici della polizia (CEDU, Bălşan c. Romania, 23 maggio 2017, n. 49645/09, §§ 135-136).È poi importante ricordare come la Corte ha più volte sottolineato che l'obbligo di svolgere un'efficace indagine contro tutti gli atti di violenza domestica costituisce una parte essenziale degli obblighi che l'articolo 3 della Convenzione impone allo Stato. Per essere efficace, tale indagine deve essere tempestiva e approfondita; questi requisiti si applicano alla procedura nel suo complesso, anche in fase di giudizio (CEDU, MA c. Slovenia, 15 gennaio 2015, n. 3400/07, § 48; CEDU, Kosteckas c. Lituania, 13 giugno 2017, n. 960/13, § 41). Tuttavia, l'obbligo di svolgere un'indagine efficace è un obbligo di mezzi e non di risultato. Non esiste un diritto assoluto ad ottenere l'apertura di un procedimento nei confronti di una determinata persona, o la condanna di quest'ultima, quando non vi sono state mancanze rimproverabili nel tentativo di costringere gli autori di reati a desistere (A, B e C c. Lettonia, 31 marzo 2016, n. 30808/11, § 149; CEDU, MGC c. Romania, 15 marzo 2016, n. 61495/11, § 58). La Corte EDU ricorda poi che, tra gli elementi che caratterizzano un’effettiva indagine ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione, il fatto che i procedimenti legali non siano travolti dalla prescrizione è fondamentale. Ad esempio, la Corte ha già affermato che la concessione di un'amnistia o la grazia non dovrebbero essere tollerate in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da agenti dello Stato (CEDU, Mocanu e altri c. Romania [GC], 17 settembre 2014, n.10865/09 e altri 2, § 326). Questo principio è stato esteso anche agli atti di violenza posti in essere da privati (CEDU, EG c. Repubblica di Moldova, 13 aprile 2021, n. 37882/13, § 43; CEDU, Pulfer c. Albania, 20 novembre 2018, n.31959/13, § 83; vedi anche, per l’impunità risultante dall'intervento della prescrizione, CEDU, İbrahim Demirtaş c. Turchia, 28 ottobre 2014, n.25018/10, § 35). La Corte ha ritenuto che gli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 2 e dall'articolo 3 difficilmente possono ritenersi rispettati quando un'indagine è stata chiusa per effetto della prescrizione del reato a causa dell’inerzia delle autorità (parere consultivo sull'applicabilità della prescrizione alle azioni penali, alle condanne e sanzioni per reati costituenti, in sostanza, atti di tortura [GC], Istanza n. P16-2021-001, Corte di Cassazione armena, § 60, 26 aprile 2022 e casi ivi citati). La Corte ha quindi concluso che vi era stata una violazione delle garanzie procedurali di cui all’art. 3 nei casi in cui la prescrizione era scattata perché le autorità non avevano agito con la sollecitudine e la diligenza richieste (vedi, tra altri, CEDU, Batı e altri c. Turchia, 3 giugno 2004, n.33097/96 e 57834/00, §§ 97 e 145-147; CEDU, Yeşil e Sevim c. Turchia, 5 giugno 2007, n. 34738/04, §§ 38-42; CEDU, Erdoğan Yılmaz e altri c. Turchia, 14 ottobre 2008, n. 19374/03, § 57; CEDU, Erdal Aslan c. Turchia, 2 dicembre 2008, n. 25060/02 e 1705/03, §§ 75-79; CEDU, Pădureţ c. Moldavia, 5 gennaio 2010, n. 33134/03, § 75; CEDU, Karagöz e altri c. Turchia, 13 luglio 2010, n.14352/05 e altri 2, §§ 53-55; CEDU, Savin c. Ucraina, 16 febbraio 2012, n. 34725/08, §§ 70-71; CEDU, Uğur c. Turchia, 13 gennaio 2015, n.37308/05, § 105; CEDU, Barovov c. Russia, 15 giugno 2021, n. 9183/09, § 42). Inoltre, quando l'indagine ufficiale ha portato all'avvio di un procedimento dinanzi ai giudici nazionali, il procedimento nel suo insieme, compresa la fase di giudizio, deve soddisfare i requisiti di cui all'art. 3 della Convenzione (CEDU, MC e AC c. Romania, 12 aprile 2016, n. 12060/12, § 112). Mentre non vi è alcun diritto assoluto che tutti i procedimenti giudiziari debbano comportare una specifica condanna o sanzione, in nessun caso le autorità nazionali dovrebbero essere disposte a lasciare impunite gravi lesioni fisiche e psichiche, o punire gravi reati con sanzioni eccessivamente indulgenti (CEDU, Sabalić c. Croazia, 14 gennaio 2021, n. 50231/13, § 97). Le autorità, dunque, devono agire in questi casi con sufficiente tempestività e diligenza. In caso contrario, l’autore di questi reati finisce per godere dell'impunità quasi totale (vedi, tra gli altri, İbrahim Demirtaş sopra citato § 35; CEDU, Beganovic c. Croazia, 25 giugno 2009, n. 46423/06, §§ 85 a 87; Valiulienė, sopra citato, §§ 85 a 86; per quanto riguarda l'articolo 2, CEDU, Alikaj e altri c. Italia, 29 marzo 2011, n. 47357/08, §§ 107 e 108; CEDU, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk c. Turchia, 9 aprile 2013, n. 13423/09, §§ da 98 a 101). La Corte ritiene che l'obiettivo di una protezione effettiva contro i maltrattamenti, compresa la violenza domestica, non possa ritenersi perseguito quando il procedimento penale si chiude in base alla declaratoria di prescrizione, se all'origine della prescrizione vi sono inadempienze delle autorità, come sopra dimostrato (vedi Valiulienė, sopra citata, § 85). Da questo punto vista, ritiene che i reati legati alla violenza domestica, devono essere inseriti, anche se commessi da persone fisiche, tra i più gravi, per cui la giurisprudenza della Corte ritiene che sia incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall'art. 3 che le indagini su tali reati si esauriscano per effetto della prescrizione dovuta all'inattività delle autorità (in merito alla concessione di amnistia in un caso di violenza sessuale commessa da individui si veda EG c. Repubblica di Moldova, sopra citata, § 143, paragrafo 136). La Corte ribadisce che si aspetta che gli Stati siano ancora di più severi quando puniscono anche i responsabili della violenza domestica perché la posta in gioco non è solo la questione della responsabilità penale individuale degli autori: quindi, l'autorità giudiziaria in nessun caso dovrebbe dimostrarsi disposta a lasciare impunite aggressioni all'integrità fisica e morale delle persone. È anche dovere dello Stato di combattere il sentimento di impunità di cui gli aggressori possono pensare di trarre vantaggio e mantenere la fiducia e il sostegno dell’opinione pubblica nello stato di diritto, in modo da prevenire qualsiasi parvenza di tolleranza o collusione delle autorità in merito ad atti di violenza (CEDU, Okkalı c. Turchia, 17 ottobre 2006, n. 52067/99, § 65). Nel caso di specie, la Corte EDU ha considerato, visti gli elementi di cui sopra, che il modo in cui le autorità nazionali, da un lato, sulla base meccanismi di prescrizione dei reati propri del quadro nazionale, ha mantenuto un sistema in cui la prescrizione è strettamente legata all'azione penale, anche dopo l'apertura di un procedimento, e - dall'altro - ha svolto il procedimento penale con un grado di “passività giudiziaria” incompatibile con il predetto quadro normativo, non potesse soddisfare i requisiti dell'articolo 3 della Convenzione (vedi, mutatis mutandis, CEDU, W. c. Slovenia, 23 gennaio 2014, n. 24125/06, §§ 66-70; CEDU, PM c. Bulgaria, 24 gennaio 2012, n. 49669/07, §§ 65-66; M.C. e A.C., sopra citata, §§ 120-125). Com’ è noto, adesso il nostro Paese avrà tre mesi di tempo per decidere se chiedere il rinvio alla Grande Camera. Non è certo che ciò avverrà, anche in considerazione del voto unanime dei giudici della Corte, ivi incluso il rappresentante italiano. Ciò che è preoccupante, tuttavia, è che il nostro Paese ha collezionato nell’arco di poco meno di un mese un’altra condanna sempre per l’inerzia delle autorità nel perseguire casi di violenza domestica (v. il caso CEDU, De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022, n. 23735/19). Questo deve portare seriamente a riflettere su come debbano essere affrontate tali vicende, al fine di evitare che lo Stato possa anche soltanto apparire poco attento a queste situazioni dietro le quali si celano sofferenze e traumi destinati a rimanere irreversibili se non tempestivamente affrontate dalle autorità. Esito del ricorso: Accolto in parte Precedenti giurisprudenziali: Corte e.d.u., Radomilja e altri c. Croazia [GC], 20 marzo 2018 Corte e.d.u., Bouyid c. Belgio [GC], 28 settembre 2015 Corte e.d.u., Valiulienė c. Lituania, 26 marzo 2013 Corte e.d.u., Volodina c. Russia (n. 2), 14 settembre 2021 Corte e.d.u., Eremia c. Repubblica di Moldova, 28 maggio 2013 Corte e.d.u., TM e CM c. Repubblica di Moldova, 28 gennaio 2014 Corte e.d.u., Kontrová c. Slovacchia, 31 maggio 2007 Corte e.d.u., M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012 Corte e.d.u., Opuz c. Turchia, 9 giugno 2009 Corte e.d.u., Tunikova e altri c. Russia, 14 dicembre 2021 Corte e.d.u., X e altri c. Bulgaria [GC], 2 febbraio 2021 Corte e.d.u., Kurt c. Austria [GC], 15 giugno 2021 Corte e.d.u., Bălşan c. Romania, 23 maggio 2017 Corte e.d.u., MA c. Slovenia, 15 gennaio 2015 Corte e.d.u., Kosteckas c. Lituania, 13 giugno 2017 Corte e.d.u., A, B e C c. Lettonia, 31 marzo 2016 Corte e.d.u., MGC c. Romania, 15 marzo 2016 Corte e.d.u., Mocanu e altri c. Romania [GC], 17 settembre 2014 Corte e.d.u., EG c. Repubblica di Moldova, 13 aprile 2021 Corte e.d.u., Pulfer c. Albania, 20 novembre 2018 Corte e.d.u., İbrahim Demirtaş c. Turchia, 28 ottobre 2014 Corte e.d.u., Parere consultivo sull'applicabilità della prescrizione alle azioni penali, alle condanne e sanzioni per reati costituenti, in sostanza, atti di tortura [GC], Istanza n. P16-2021-001, Corte di Cassazione armena, 26 aprile 2022 Corte e.d.u., Batı e altri c. Turchia, 3 giugno 2004 Corte e.d.u., Yeşil e Sevim c. Turchia, 5 giugno 2007 Corte e.d.u., Erdoğan Yılmaz e altri c. Turchia, 14 ottobre 2008 Corte e.d.u., Erdal Aslan c. Turchia, 2 dicembre 2008 Corte e.d.u., Pădureţ c. Moldavia, 5 gennaio 2010 Corte e.d.u., Karagöz e altri c. Turchia, 13 luglio 2010 Corte e.d.u., Savin c. Ucraina, 16 febbraio 2012 Corte e.d.u., Uğur c. Turchia, 13 gennaio 2015 Corte e.d.u., Barovov c. Russia, 15 giugno 2021 Corte e.d.u., MC e AC c. Romania, 12 aprile 2016 Corte e.d.u., Sabalić c. Croazia, 14 gennaio 2021 Corte e.d.u., Beganovic c. Croazia, 25 giugno 2009 Corte e.d.u., Alikaj e altri c. Italia, 29 marzo 2011 Corte e.d.u., Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk c. Turchia, 9 aprile 2013 Corte e.d.u., Okkalı c. Turchia, 17 ottobre 2006 Corte e.d.u., W. c. Slovenia, 23 gennaio 2014 Corte e.d.u., PM c. Bulgaria, 24 gennaio 2012 Corte e.d.u., De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022 Riferimenti normativi: Art. 3 Convenzione e.d.u. Corte europea diritti dell’uomo, Sez. I, 7 luglio 2022, n. 32715/19

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